Set 1, 2024 | Biokinesiologia, Consigli pratici
Sprigionare il proprio potenziale di riuscita è fondamentale anche per fare al meglio, e con soddisfazione, il proprio lavoro. Utilizzo di proposito la parola “riuscita” piuttosto che “successo”, perché questo termine racchiude un concetto importante: “uscire di nuovo”. Parole che, secondo me, significano anche una rinascita rispetto a se stessi, la possibilità di superare i propri limiti, fino a ieri sconosciuti. Il processo di riuscita è un movimento continuo, senza fine, di crescita nel rispetto di sé.
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Ogni persona, per esprimere appieno i propri talenti, dovrebbe sentirsi degna e legittima. Insegnando principi e strumenti ai professionisti della relazione di aiuto e del benessere, incontro spesso uomini e donne con anni di formazione alle spalle, che avrebbero tutta la legittimità di proporsi come esperti del settore. Eppure, alcuni di loro non osano farlo. Pensano che manchi sempre qualcosa: un altro corso di formazione, maggiore esperienza, il momento giusto e così via.
Si propongono, eventualmente, agli amici o ai familiari, ma guai a farsi pagare per l’impegno profuso, come se l’aiuto che sono in grado di offrire non avesse alcun valore.
È possibile superare questa impasse e arrivare a sprigionare il proprio potenziale di riuscita, con l’obiettivo di sentirsi degni e legittimati a ricevere il riconoscimento che si merita. Questo è anche uno dei temi che tratto nei miei seminari: se vuoi informazioni puoi contattarmi qui. Ora approfondiamo meglio l’argomento.
Il processo di riuscita è un movimento continuo, senza fine, di crescita nel rispetto di sé.
Porsi le domande giuste
Ai professionisti della relazione di aiuto e del benessere sottopongo una piccola indagine tramite queste domande, per capire come si pongono rispetto alle proprie competenze:
- sei capace di raccogliere i frutti del tuo lavoro? Cioè risultati, efficacia, retribuzione, gratitudine, riconoscimento,…
- sei capace di trasformare in benefici quello che ricevi? Parlo di insegnamenti ricevuti che dovrebbero arricchire la tua proposta e la tua prosperità, oppure di complimenti che possono nutrire il tuo senso di autostima. Ma anche di denaro, che ti dovrebbe permettere di vivere meglio.
- quanti diplomi o attestati pensi di dover ancora appendere alla tua parete per sentirti legittimato e degno di ricevere tutto il riconoscimento che meriti?
Per capire meglio questo tema e andare alla radice di una scarsa legittimazione voglio condividere il punto di vista della Biokinesiologia.
I tre potenziali biologici pilastri
La Biokinesiologia ci insegna che esistono tre potenziali biologici pilastri. Integrità, dignità e legittimità. Scoprire se uno di questi potenziali è bloccato in noi è molto importante. Anche solo uno di questi potenziali, se bloccato, ostacola l’accesso ad altri potenziali e crea una situazione di grandi talenti inespressi. Diventa allora difficile nel caso, per esempio, dei professionisti, esprimere il proprio potenziale di riuscita, trarre il meglio dal proprio lavoro e sentirsi pienamente gratificati.
Primo pilastro: l’integrità
Percepirsi come non integri significa sentire che al proprio essere manca qualcosa, qualcosa che spesso non è definito. Può essere una qualità o una competenza. Ci si può anche sentire a pezzi oppure feriti. L’integrità può essere persa su piani differenti, ad esempio quello fisico, sociale, emotivo, sessuale, intellettuale eccetera.
Proviamo a pensare: un animale ferito nel fisico non può procacciarsi il cibo, non può spostarsi, affrontare pericoli o predatori e neppure riprodursi.
Solo chi ha fiducia nel fatto di poter ripristinare la propria integrità si espone e osa liberamente andare nel mondo per fare nuove esperienze. Puoi prenderti il rischio di essere ferito (a qualunque livello: fisico, emotivo e così via) se hai fiducia che potrai guarire dalla ferita. Quando invece questo potenziale è bloccato, rischiamo di essere dominati da un movimento subdolo che ci spinge a stare sotto una campana di vetro. Il fluire spontaneo della vita risulta così intralciato.
Ti riconosci in questa descrizione e vuoi approfondire l’argomento? Leggi qui.
Secondo pilastro: la dignità
Sentirsi degni permette di sentirsi meritevoli. Quello che molti ignorano, però è che, contrariamente a quello che ci è stato spesso insegnato, non serve “fare, fare e continuare a fare” per essere realmente degni e meritevoli. La dignità è uno stato naturale: non richiede impegni particolari.
Se anche tu non ti senti degno, e questa sensazione riguarda in particolare il tuo lavoro, ti invito a riflettere su una cosa. Non devi essere impeccabile o perfetto per essere degno. Prova a riconoscere la dignità di quello che sai fare e anche di quello che non sai fare, con i tuoi pregi e difetti. La dignità delle tue opinioni e di quello che provi. Nella mia esperienza è una base fondamentale per sprigionare il tuo potenziale di riuscita.
Se la dignità è ferita
Quando la dignità di una persona è stata ferita e il suo potenziale di ripristinarla è bloccato, c’è come un freno che impedisce di vivere a pieno la propria vita. Chi è ferito nella dignità non si espone, non si valorizza e pensa di valere poco, anche sul lavoro. Se non ti senti degno sicuramente fai moltissima fatica, anche per ottenere molto poco.
Spesso, in questi casi, il passato genealogico delle persone bloccate in una sensazione ricorrente di scarsa dignità ci racconta che un antenato si è sentito indegno o è stato riconosciuto pubblicamente come indegno. Diventa importante mettere tutto nel contesto dell’epoca. Quello che oggi non è un problema poteva essere drammatico allora.
Parliamo ad esempio di donne rimaste incinta senza essere sposate, ragazze madri, a volte addirittura bandite dalla famiglia. Possono pesare anche le memorie di persone che si sono suicidate a cui è stato negato un funerale in chiesa. O persone che hanno subito un fallimento economico e il cui livello sociale è crollato. Queste memorie spesso piene di vergogna non vanno taciute ma viste e accolte. Riconoscere la dignità dell’esperienza, onorare il destino di questi antenati, permette di trasformare il blocco e sprigionare il proprio potenziale di riuscita.
Terzo pilastro: la legittimità
La legittimità è legata al diritto di esistere, di avere un posto nel mondo, di essere ciò che si è senza se e senza ma. Se il senso di legittimità è intatto, ci si sente in diritto di ricevere il meglio senza dubbi o preoccupazioni sul proprio valore. La carenza di legittimità, d’altro canto, si può manifestare in vario modo. Ad esempio con la convinzione di non avere diritto a ciò che gli altri hanno ricevuto semplicemente venendo al mondo. Essere amati, mangiare la fetta di torta più grande e non le briciole, avere un lavoro appagante, ottenere riconoscimenti nello sport, a scuola, in famiglia.
Non è detto che una carenza di legittimità coinvolga tutti gli ambiti della vita. C’è chi si sente legittimato dal punto di vista affettivo ma non sul lavoro, per esempio.
La carenza di legittimità come di dignità possono essere palesi oppure si rivelano a volte in piccoli particolari e ambiti della vita.
Come capire se la carenza di legittimità ci riguarda? Se ti senti a disagio quando ricevi dei complimenti, il tuo potrebbe essere un caso di carenza di legittimità. Così come se ti trovi spesso a essere l’amante e non il compagno o la compagna ufficiale. O ancora se fai fatica a farti pagare quando esegui un lavoro.
Chi non si sente legittimo pensa di disturbare. Parliamo di persone discrete che non si permettono di sognare in grande. Anche in questo caso, spesso, il senso di legittimità è bloccato da uno o più eventi accaduti nel passato. Parliamo ad esempio di bambini non riconosciuti o di antenati che hanno fatto cose fuori legge, o ancora di amori nascosti. Nella maggior parte dei casi sono memorie inconsce.
L’importanza di portare a galla i ricordi
Per sprigionare il proprio potenziale di riuscita è fondamentale portare a galla i ricordi e accogliere quanto accaduto. Il fatto che gli eventi negativi del passato siano stati nascosti rivela un’alta tensione emotiva dei membri di una famiglia. Più il livello di accettazione delle persone coinvolte in quella storia genealogica è basso, più rischiamo che ci siano potenziali biologici bloccati.
La mancanza di accettazione è come un macigno che pesa sui discendenti, la maggior parte delle volte in modo inconscio. Quando un evento o una persona sono stati in modo o nell’altro esclusi, si crea una tensione. Qualcuno dei discendenti avrà il compito di reintegrare l’escluso. Si tratta di un fenomeno che gli esperti di costellazioni familiari chiamano “irretimento” e che va sciolto per sbloccare il potenziale di riuscita e benessere degli individui di quella famiglia. Come dicevo nell’introduzione, infatti, questi tre potenziali di integrità, dignità e legittimità devono essere liberi per aver accesso a tutti gli altri. E le memorie personali e genealogiche anche inconsce giocano un ruolo essenziale in questo processo.
Potenziali pilastri e lavoro
Come puoi ricevere tutti i frutti del tuo lavoro se non ti senti degno e legittimo?
Quando ci sentiamo a pezzi, quando pensiamo che in noi manchi qualcosa e il potenziale dell’integrità è bloccato, costruire un futuro migliore diventa molto faticoso. Come puoi sentirti sicuro e colmo di abbondanza se ti senti un secchio bucato? Se sei un professionista ma non ti fidi di te stesso e non credi di essere legittimato nel tuo lavoro, difficilmente potrai attrarre l’attenzione e la stima di clienti e pazienti.
Lo stesso può valere nelle relazioni amorose o in tutti gli altri ambiti della vita. Ma torniamo al tema del lavoro, che è al centro di questo articolo. Se dentro di te ti senti un impostore non puoi ottenere il lavoro della tua vita e goderne. Non puoi esprimere appieno il tuo potenziale di riuscita.
Quando lavoro (da un punto di vista più biologico che psicologico), con una persona che soffre per il senso di inadeguatezza e il fatto di non sentirsi all’altezza, il mio primo obiettivo è quello di verificare che i tre potenziali biologici pilastri siano accessibili. Spesso non lo sono, come in molte persone che si vergognano di se stesse. Questa vergogna si manifesta in vari modi, come la timidezza oppure il perfezionismo. Se sono tranquilla e so di essere degna, amabile, stimabile come essere umano imperfetto, perché dovrei cercare la perfezione? Il risultato è spesso una carenza di riuscita e una scarsa soddisfazione. In tutti questi casi propongo di intraprendere un percorso per sbloccare i tre potenziali biologici pilastri e superare il senso di insicurezza e scarsità.
Una proposta per i professionisti
Come ho già sottolineato, un professionista per esprimere appieno il suo potenziale di riuscita deve sentirsi degno e legittimato. Sappiamo che le conoscenze sono sempre in movimento e in costante evoluzione, ma ogni professionista con esperienza dovrebbe avere in sé la convinzione di essere abbastanza nel qui e ora per realizzarsi all’interno della propria area di competenza.
Se invece non ti senti abbastanza e pensi sempre che ti manchi qualcosa per realizzarti dal punto di vista professionale, ti propongo di partecipare a un seminario intensivo di due giorni per liberare il tuo potenziale di riuscita, contattami.
Lug 13, 2024 | Bioconsapevolezza, Consigli pratici
Il rispetto tra uomini e donne è alla base di una relazione sana, di amore e sostegno. Le notizie di cronaca ci raccontano di uomini che operano ogni sorta di violenza sulle donne, le stesse donne che dicono di voler amare e proteggere. Una strada per fare pace tra uomini e donne è oggi, quindi, quanto mai fondamentale.
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Perché le relazioni di coppia, che idealmente dovrebbero essere relazioni d’amore, fondate sul sostegno reciproco e il rispetto, a volte sono invece relazioni tossiche dove non c’è alcun rispetto dell’altro e la violenza domina, manifesta o nascosta? In alcuni casi questo accade fin dall’inizio della relazione, in altri invece è qualcosa che succede nel tempo.
Come possiamo invertire la rotta?
Questo articolo vuole mettere qualche granello di sabbia nei troppo ben oliati meccanismi della violenza tra partner. Creando qualche attrito, vorrei favorire la trasformazione verso una realtà di maggiore rispetto tra uomini e donne.
Rispetto tra uomini e donne, non è questione di genere
Per semplificare, in questo articolo parlerò della violenza degli uomini sulle donne, ma è importante riconoscere che esiste anche la violenza delle donne sugli uomini, benché se ne parli molto poco.
Ciò accade per una ragione piuttosto semplice. Quando una donna viene picchiata da un uomo o subisce una violenza di qualunque genere, di solito suscita negli altri compassione, indignazione, empatia e desiderio di protezione.
Quando si parla di violenza sugli uomini da parte di donne, le reazioni immediate e le emozioni che emergono sono molto diverse: stupore, incredulità, giudizio, stigmatizzazione o persino ilarità. Ciò rende il vissuto degli uomini che subiscono queste violenze ancora più doloroso. La vergogna, spesso, impedisce agli uomini di chiedere aiuto e addirittura di testimoniare il vero di fronte alla giuria o ai propri cari. Soprattutto quando l’uomo è fisicamente più grande e più forte della partner.
Esiste anche la violenza delle donne sugli uomini, benché se ne parli molto poco
Il danno della violenza
Quando manca il rispetto e viene perpetrata una violenza c’è sempre un danno, è un dato di fatto da non sottovalutare. Viene automatico, in caso violenza, cercare il responsabile del danno. Quando viene identificato, ognuno reagisce a modo suo. C’è chi giudica, chi odia, chi condanna, chi insulta perché “non è possibile comportarsi così”. Dall’altra parte c’è anche chi giustifica, perché magari si tratta di una persona che sì, è violenta, ma ha subito abusi durante l’infanzia o ha una partner che non si comporta come vorrebbe la società, o ancora il violento è una persona fortemente stressata.
Quello che non dobbiamo perdere di vista è che, indipendentemente da come viene considerato il colpevole (indegno o vittima a sua volta), il danno è fatto. La violenza c’è stata, non viene cancellata dalle critiche o dalle giustificazioni.
Si spendono tante energie per stigmatizzare l’autore della violenza o per difenderlo, dimenticando di occuparsi del danno e di cosa si possa fare per migliorare la condizione della vittima e del colpevole. Perché si può stare meglio anche quando il danno c’è o c’è stato. Bisogna però lavorarci su. Serve impegno e motivazione.
La giustificazione di chi perpetra violenza
La vittima che rimane all’interno di una coppia violenta ha la tendenza a giustificare le azioni del suo “carnefice”. Spesso crede di poter cambiare il suo uomo, dandogli quell’amore che potrebbe non aver ricevuto durante l’infanzia. In questa missione impossibile la donna sacrifica il proprio benessere, talvolta arrivando a perdere la vita.
Indipendentemente dalle ragioni alla base della violenza, anche se pensi che il tuo partner sia a sua volta una vittima, sappi che farcela da sola, in queste circostanze, è difficilissimo: chiedi aiuto. Esiste una rete nazionale anti violenza a sostegno delle donne. Chiama il numero verde 1522 oppure informati sul sito www.telefonorosa.it/. Troverai professionisti preparati per darti tutto il supporto che ti serve, senza giudizio.
Se sei vittima di violenza chiedi un aiuto qualificato
Cosa possiamo cambiare?
Per riportare il rispetto tra uomini e donne e favorire la pace tra i generi sono tante le azioni che possiamo scegliere di compiere. Il passato non può essere cambiato ma il presente sì. Cosa si può fare per trasformare una situazione infelice e potenzialmente drammatica in un’opportunità per accrescere il proprio benessere?
Ritengo che sia necessario precisare chi è responsabile di cosa. Perché farlo significa sapere cosa abbiamo il potere di cambiare e cosa no. Ci aiuta ad evitare di spendere tempo ed energie inutilmente, in direzioni dove non possiamo intervenire. L’affermazione che sto per fare è molto potente e non tutti sono pronti ad accoglierla: devi ricordare che ogni emozione vissuta è responsabilità di chi la vive, non degli altri. Al contrario, ogni azione è responsabilità di chi la compie.
Le responsabilità in una relazione
Caliamo questo discorso all’interno della violenza tra partner e della mancanza di rispetto tra uomini e donne. La reazione aggressiva appartiene alla persona che urla o picchia. Non è colpa o responsabilità della persona che la subisce. Il modo di vivere una determinata situazione, però, appartiene a noi.
L’altro non è responsabile della mia rabbia, della mia depressione, della paura. Infatti persone diverse reagiscono in modi differenti a una stessa situazione.
La qualità della relazione che vivo con un’altra persona è per il 50 % sotto la mia responsabilità.
Ho il potere di rimanere in una relazione o di interromperla. Intendiamoci: so bene che a volte è molto difficile utilizzare questo potere. La paura può dominare e bloccare le nostre azioni, impedendoci di uscire da una situazione tossica.
Ognuno ha il potere di rimanere in una relazione o di interromperla
Quando si resta in una relazione tossica
Di fatto, le vittime di una relazione tossica, dove non c’è rispetto tra uomini e donne, stanno in qualche modo prestando il loro consenso alla violenza. So che questa affermazione provocherà in molti una grande indignazione, chiedo però a te che mi stai leggendo di continuare a farlo, per comprendere bene il mio discorso. Se guardiamo alla relazione tossica da un punto di vista puramente biologico, per sopportare una tale situazione è necessaria una diminuzione del senso di disgusto emotivo (per scoprire di più sull’emozione primaria del disgusto ti consiglio questo video).
Questa diminuzione della sensibilità al disgusto parla di un passato in cui la persona ha vissuto in un ambiente con poco nutrimento emotivo positivo. C’è stata, quindi una carenza di amore. Un animale che mangia qualcosa di tossico è un animale in una situazione di scarsità di nutrimento, tale da rischiare di morire di fame. Mangiare qualcosa di tossico è il tentativo di riuscire a trovare qualche briciola di nutrimento per sopravvivere.
Di conseguenza, per favorire il processo di guarigione, a queste persone suggerisco di lavorare sulla propria autostima e sul proprio valore. L’intento è quello di riconnettersi all’abbondanza di amore, rispetto, considerazione che si hanno a disposizione e al fatto che si hanno il diritto e la dignità atte a ricevere tutto ciò.
Il passato ci viene in aiuto
Quando rivisitiamo la nostra vita passata e il vissuto dei nostri antenati, possiamo individuare la ripetizione di schemi nocivi che coinvolgono violenze, suicidi, mancanza di rispetto, povertà, svalutazione e così via. Questo può far pensare di essere quasi condannati a vivere situazioni sempre simili, ripetendo lo stesso schema all’infinito.
Per uscire da situazioni tossiche di questo o altro genere e riconquistare la libertà di esprimere tutto il tuo potenziale di gioia e serenità, hai bisogno prima di tutto di riconoscere questi schemi. Per questo voglio guidarti in due processi. Puoi iniziare da sola, ti invito però a farti aiutare da un buon terapeuta affinché tu ne possa trarre il massimo beneficio.
Riconoscere uno schema ricorrente è il primo passo
Un atto inconscio di fedeltà
Guarda al vissuto degli antenati costruendo il tuo albero genealogico. Potresti rintracciare un filo rosso di violenza che si perpetua di generazione in generazione. Subire violenza oggi, nella tua vita, può essere un atto di fedeltà inconscio verso le donne della tua famiglia (tua madre, le nonne). Si tratta di un atto d’amore. Qualcosa che può accadere in diverse situazioni e vissuti traumatici, come suicidi, fallimenti, malattie o povertà.
Come fare per uscire da uno schema che si ripete
Riconoscere che questa ripetizione è un atto d’amore inconscio è il primo passo. Un atto per sentire che appartieni a quel clan, un modo per onorarlo. Per trasformare la situazione puoi connetterti a un amore più grande. Appartieni a questo clan ed è grazie ai tuoi antenati che sei viva oggi. Ti hanno trasmesso la vita. Ti propongo allora di onorare il destino dei tuoi antenati. Uomini e donne. Vittime e carnefici. Ognuno ha fatto il meglio che poteva con le conoscenze, il livello di consapevolezza, le risorse che aveva e all’epoca in cui viveva. Queste esperienze fatte (inclusi i danni inflitti e subiti) vanno ad arricchire il bagaglio emotivo e sperimentale del clan. Tu porti in te le memorie di questi vissuti e puoi farne qualcosa di buono. Oggi puoi scegliere con amore e rispetto di contribuire alla ricchezza di queste esperienze e di sperimentare altro.
Facendo un altro tipo di esperienza rispetto alle donne del tuo clan, non sarai né migliore, né peggiore: darai semplicemente il tuo contributo. Avrai successi e fallimenti anche tu. Agisci per rispettarti e ripristinare il tuo valore di donna, in nome di tutti i tuoi antenati.
Propongo di onorare il destino degli antenati
Ripercorrere il vissuto personale
Un altro processo che puoi mettere in atto riguarda invece il tuo vissuto personale. Descrivi nel dettaglio i fatti di una situazione dannosa che hai vissuto recentemente. Ad esempio: il mio partner è arrivato a casa, stavo stirando, mi ha detto qualcosa, io non ho capito, allora ha iniziato a urlare e tirarmi addosso i piatti. Questa parte dell’esercizio è come una cronaca, una descrizione oggettiva dei fatti priva del racconto delle emozioni.
Il secondo passaggio prevede di descrivere come ti sei sentita in ogni momento: impaurita, colpevole, arrabbiata, in allerta, disprezzata e così via.
Poi fai mente locale e vai a recuperare altri eventi nella tua vita passata, dalla tua nascita ad oggi, in cui ti sei sentita nello stesso modo e hai vissuto emozioni simili. Eventi che possono riguardare uomini e donne, il padre, la madre, altri familiari, insegnanti eccetera. Fai un elenco il più completo possibile. Lasciati guidare dalla similarità con ciò che hai sentito.
Infine, descrivi cosa produce oggi nella tua vita questo modo ricorrente di sentirti. Per esempio: nel passato in tutte queste situazioni mi sono sentita giudicata, sbagliata, non abbastanza per essere amata, una delusione, una creatura ingombrante. Oggi, mi capita di sentirmi subito in colpa, ho sempre l’impressione di sbagliare, se qualcuno è nervoso mi chiedo sempre cosa ho fatto di male.
Perché questo esercizio?
Quando ci accorgiamo che quello che stiamo vivendo è l’ennesima opportunità di rivivere quello che abbiamo attraversato già tante volte, possiamo riconoscere uno schema che ci appartiene. Se questo schema ci appartiene la persona con cui stiamo vivendo il conflitto non è più così prioritaria… Non possiamo cambiare l’altro ma possiamo accogliere il nostro vissuto e questa ripetizione di emozioni/sensazioni che continuano a risuonare in noi. Questo processo può essere fatto da chiunque e in qualunque situazione difficile: permette di conoscere meglio noi stessi.
Dopo aver acquisito consapevolezza su questa cosa, la proposta che ti faccio è questa: oggi sei adulta e puoi accogliere le emozioni della bambina che sei stata. Ad esempio scrivendo una lettera simbolica in cui lasci che la te bambina esprima tutte le sue emozioni, la rabbia, l’impotenza, l’amore non ricambiato, il dolore.
Il passaggio successivo è diventare l’adulta affidabile che può dare a quella bambina ciò che non ha avuto. Parlo di attenzioni, rassicurazioni, protezione, aiuto, stima, amore, il potere di chiedere aiuto eccetera. Assumerai una nuova posizione nei confronti di te stessa che influenzerà le tue azioni, le quali hanno il potere di cambiare la tua realtà.
Se vuoi approfondire il tema delle relazioni di coppia, ti consiglio due articoli che ho scritto:
Dipendenza affettiva nella coppia: cosa puoi fare per evitarla
Dire no, quando fa bene alla coppia e perché
Mar 25, 2024 | Conoscersi, Consigli pratici
Recuperare leggerezza e vitalità in tempi relativamente brevi è possibile, entrando in contatto con quella corrente vitale che scorre dentro di noi. Ci sono tutta una serie di azioni, reazioni ed emozioni che nascono in noi e ci attraversano senza bisogno di alcun intervento della nostra mente. Respiriamo, ci muoviamo, digeriamo, ci emozioniamo anche senza bisogno di scegliere o controllare quanto facciamo.
L’educazione, i traumi che possono subentrare e le emozioni bloccate che spesso ne conseguono, però, di solito allontanano da questo potente movimento interiore, naturale e spontaneo. Scopri con me cosa puoi fare, giorno dopo giorno, per recuperare leggerezza e vitalità partendo proprio da chi sei.
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Paure e ferite, consce e inconsce
La paura di essere sbagliati e dunque non amati ed esclusi dagli affetti, dalla famiglia, dalla società, spesso può diventare più forte della corrente vitale. In modo più o meno consapevole ci si creano dei limiti, delle regole di “savoir vivre” basate su ciò che è bene oppure male, giusto o sbagliato, spesso con riferimenti assolutistici. Qualcosa va bene del tutto o per niente, un’azione è bianca oppure è nera. Facciamo questo, anche se spesso non ce ne accorgiamo, per difenderci e per evitare di provare dolore. Questo comportamento, però, spesso ci condanna a un malessere certo (poiché ci allontaniamo da ciò che davvero siamo e sentiamo) per la paura di un dolore incerto (il rifiuto, ipotetico, degli altri).
Se questo è accaduto anche a te, molto probabilmente ora fai fatica a vivere spontaneamente le emozioni e non sai riconoscere il tuo potenziale né sai come esprimerlo a pieno.
Come un bonsai
La tua situazione, comune a molte altre persone, mi ricorda quella di un bonsai. Sei nato con il potenziale per diventare una gigantesca quercia secolare. Potatura dopo potatura, sotto l’influenza di controlli e cure quotidiane, al prezzo salato di un costante indottrinamento e di un grande autocontrollo, con il tuo consenso più o meno conscio, ti è stata cucita addosso un’identità adatta alla società. Il tutto per non disturbare troppo gli altri e forse anche per non attirare troppo l’attenzione.
Questo processo di trasformazione che piega il potenziale spontaneo delle persone e lo plasma in opere idonee alla società, per rispondere al bisogno di controllare e domare la natura selvaggia, richiede una mole di energia enorme. Questo perché è difficile e faticoso contrastare la potenza della vita rigogliosa che scorre dentro ciascuno di noi, e spinge per crescere ed espandersi.
In questo articolo il mio obiettivo è quello di suggerirti una via all’insegna della spontaneità, della naturalezza e dell’autenticità. Perché se ti lasci andare, se rinunci all’autocontrollo e accetti di osservare con curiosità il disvelarsi del tuo potenziale, potrai recuperare leggerezza e vitalità e smetterai di sprecare tanta energia.
Anche tu ti sei piegato per non disturbare troppo gli altri? Forse la società ti ha cucito addosso un’identità che non è la tua
Strumenti per recuperare leggerezza e vitalità sulla strada della spontaneità
Di seguito voglio darti alcuni consigli, o forse si tratta piuttosto di strumenti e percorsi, utili a recuperare la leggerezza, il senso vitale e con essi anche la gioia.
- Riconosci la tua dignità: sei unica e preziosa, o unico e prezioso. Nessuno nei secoli passati e nessuno nei tempi a venire potrà essere del tutto uguale a te. Quello che sei è importante ma anche quello che non sei ha un perché. Le tue qualità e i tuoi difetti contano. Le tue capacità e le tue incapacità ti definiscono in modo positivo. Sei un mix unico e irripetibile.
- Dai legittimità ai tuoi limiti e valore ai tuoi talenti. Un pesce è un pesce, non ha bisogno di camminare fuori dall’acqua o di imparare ad arrampicarsi sugli alberi per vivere le sue esperienze. Sarebbe per lui totalmente inutile e se avesse un talento del genere potrebbe persino smarrire la sua strada.
- Ascoltati e mettiti nelle condizioni di percepire cosa accade in te. Essere in contatto con quello che sentiamo ci permette di capire quando una situazione è tossica per noi, cioè consuma la nostra energia inutilmente e mette il nostro organismo in uno stato di allerta. Al contrario, possiamo anche percepire se una situazione è benefica e nutriente, portatrice di maggiore energia e gioia.
- Interrogati sui tuoi valori, perché conoscerli è fondamentale. Cosa ti fa sentire bene? Cosa, invece, ti fa stare male? Cos’è intollerabile per te? Chiediti quali attività/persone/luoghi ti danno gioia ed energia e quali invece ti sottraggono energia. Se ti va, metti queste impressioni per iscritto, così da poterle rileggere ogni volta che ne hai bisogno e ricordare i tuoi valori fondanti.
Fare un lavoro in profondità
Oltre agli strumenti e ai consigli del paragrafo precedente, ti suggerisco di predisporti all’ascolto e intraprendere un percorso più approfondito nel tuo io. “Lavora” per conoscere le tue sovrastrutture e per smascherare quelle convinzioni che sono tue ma che non rispettano la tua personalità profonda (il tuo essere). Quali sono le cose che appartengono alla tua educazione e alla tua cultura ma che senti creare un attrito interiore? Se le percepisci come incoerenti e stonano con il tuo essere profondo lasciale andare: il tuo punto di vista unico serve ad arricchire il mondo. Fidati!
Impegnati per riconoscere le tue sovrastrutture
Riconnettersi alla propria voce interiore
Quando riusciamo a zittire la mente, a metterla in pausa, possiamo sentire la nostra voce interiore: per quanto piccola è un’ottima alleata, perché ci spinge con gentilezza e perseveranza verso una direzione che è realmente adatta alla nostra anima.
Ci vuole il coraggio di compiere un importante atto di fiducia, perché spesso la voce interiore ci guida su strade non ancora battute. Ti consiglio di esplorare e sperimentare nuovi modi di essere e fare quello che ti viene spontaneo, starai meglio.
Accogliere le emozioni e abbandonare i “dovrei”
Trattenere le emozioni richiede tantissima energia che non può più essere utilizzata per altro. Quando ci sforziamo a non esprimere le nostre emozioni entriamo in uno stato di frustrazione e stress cronico che progressivamente logora sempre di più. Le emozioni, invece, possono essere liberate per favorire il benessere: se vuoi saperne di più ti suggerisco questo approfondimento “come esprimere le emozioni per mantenersi in salute”.
Oltre a lasciar fluire le emozioni dai a te stessa, o a te stesso, la possibilità di mettere da parte tutti i vari “dovrei fare” e “dovrei essere”. Dimentica le ingiunzioni che vengono dall’esterno ma che col tempo hai interiorizzato. Ci sono una serie di azioni che compiamo in modo automatico senza neppure chiederci cosa sentiamo e cosa desideriamo realmente. Riconoscere quando la testa “parte per la tangente”, senza prendere in considerazione cosa comunica il corpo, può essere di grande aiuto per uscire in tempo da un circolo vizioso.
Dimentica le ingiunzioni che vengono dall’esterno ma che col tempo hai interiorizzato
L’esempio del melo
Spesso viviamo con la paura che, se non ci sottoporremo all’obbligo di agire, non faremo mai nulla di buono nella vita: non ci realizzeremo, non porteremo a termine la nostra missione, saremo creature inutili e così via.
Personalmente, quando sono affaticata e ho bisogno di ridimensionare la pressione dovuta all’imperativo di agire, ricordo a me stessa l’esempio del melo.
Il melo non si alza la mattina con l’obiettivo di fare delle mele. Il melo è semplicemente se stesso. Lascia scorrere la vita che gli è propria e che dipende solo da quello che già è, né più né meno. In questo flusso produce gemme, foglie, fiori, frutti… Esprime semplicemente la propria natura, che ci siano animali, umani o qualunque altro essere vivente nei dintorni ad apprezzare o meno le mele.
Non serve che conosca intellettualmente se stesso, non serve che si impegni e faccia fatica, non serve che corrisponda alle aspettative degli altri.
Ciò che secondo me è di grande esempio nella vita del melo, soprattutto, è che mai cercherebbe di produrre ciliegie o albicocche. Anche se qualcuno dovesse dirgli che le mele non sono l’ideale e che invece le ciliegie o le albicocche sono maggiormente amate e apprezzate.
Per recuperare leggerezza e vitalità ispiriamoci al melo e diamoci la possibilità di essere semplicemente e meravigliosamente noi stessi.
Nov 16, 2023 | cambio culturale, Consigli pratici
Possiamo favorire la pace nella nostra vita quotidiana e anche nel resto del mondo, partendo da quello che pensiamo, diciamo e facciamo in prima persona. In questo articolo vorrei mostrare una strada che tutti possono percorrere e che ha proprio l’obiettivo di favorire la pace in molti modi e in molte direzioni.
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Una premessa sulla guerra
Prima di parlare di pace vorrei fare una premessa sulla guerra che ritengo importante, per poi nominare la parola guerra il meno possibile nel corso di questo articolo. Purtroppo pace e guerra si alternano senza sosta. Sono anni che osservo la guerra, quella vicina e quella lontana. Dai “piccoli” conflitti tra gli esseri umani vicini a me, e che quindi conosco personalmente, fino ai grandi conflitti internazionali. C’è poi l’abitudine alla guerra contro la malattia, i virus e i batteri diffusa soprattutto in occidente. C’è la guerra tra due o più Paesi, popolazioni, gruppi etnici o religiosi, in zone del mondo che personalmente non ho mai visitato, della cui lingua, cultura e storia personalmente so molto poco.
Sono anni che osservo le persone schierarsi violentemente per o contro una persona, un Paese, un punto di vista e di conseguenza contro chiunque osi avere una visione differente dalla propria. Oppure contro chiunque si azzardi a dichiarare di non avere un’opinione.
Osservando quanto sia contagiosa la violenza e quanto sia facile farsi contagiare e influenzare da emozioni o situazioni come rabbia, odio, carenza di rispetto, mancanza di discernimento, mi sono chiesta molto spesso cosa possiamo fare per favorire la pace, l’equilibrio, l’amorevolezza, il rispetto, la gioia e il benessere.
L’importanza di agire nel qui e ora
La mia risposta, per quanto di vasta portata, è semplice. Possiamo favorire pace, equilibrio, amorevolezza, rispetto, gioia e benessere, agendo all’interno della nostra vita quotidiana. Quando e se lo facciamo, partecipiamo all’incremento di sentimenti e situazioni positive e benefiche che migliorano la qualità della vita di chiunque nel mondo, vicino e lontano rispetto a noi. Primo perché se anche una sola persona sta meglio ed è più sana, la popolazione globale è di conseguenza più sana. Secondo perché pace, amore, rispetto e gioia sono anch’essi contagiosi.
Nel qui e ora è dove possiamo agire: lì è dove abbiamo potere. So che ne sei consapevole, ma capita di dimenticarselo. Anzi molte persone se lo dimenticano e quindi ci tengo a ripeterlo. Non puoi cambiare gli altri: né quelli vicini né quelli lontani; tuttavia, lavorandoci su, puoi cambiare te stesso. L’obiettivo non è cambiare quello che sei, ma tornare a essere maggiormente quello che sei: favorire l’espressione del tuo potenziale luminoso.
Nel qui e ora è dove possiamo agire: lì è dove abbiamo potere
Favorire la pace accrescendo il potenziale di luce
La prima tappa, quella più importante, è accogliere quello che sei. Non c’è quasi nulla di più sfiancante e controproducente che lottare contro se stessi. La lotta contro te stesso ti condanna alla guerra ventiquattr’ore su ventiquattro, sette giorni su sette. Nessuna tregua fino alla fine della vita.
Favorire la pace con te stesso, vuol dire in prima istanza accoglierti, accettando i lati luminosi ma anche quelli oscuri e difficoltosi: i paradossi, le insicurezze, le incoerenze. Accogliere le tue emozioni senza sentirti in qualche modo obbligato a scaricare la responsabilità sugli altri. Vuol dire, piuttosto che “è lui/lei che mi fa sentire così”, provare a dire “io mi sento così”.
Riconoscere quello che si muove in noi, farne l’esperienza, lasciarsi attraversare è il primo passo per favorire la pace.
Superare gli ostacoli di un’educazione poco accogliente
Molti di noi non sono stati affatto educati all’accoglienza di se stessi e delle proprie emozioni. Siamo esseri sociali, di conseguenza appartenere a un clan e sentire di avere un posto riconosciuto da tutti all’interno della società è molto importante. A volte, però, questa necessità si trasforma in ansia che viene riversata sui figli e si rischia di non accoglierli con curiosità, per assistere in modo semplice e senza preconcetti allo sbocciare del loro potenziale.
Al contrario, si agisce (inconsapevolmente o meno) schiacciandoli con aspettative e pretese parentali. Troppo spesso, i genitori hanno molto chiaro quello che i propri figli dovrebbero fare e quello che dovrebbero essere per adattarsi e farsi apprezzare dalla società.
Troppo spesso, i genitori hanno molto chiaro quello che i propri figli dovrebbero fare
Una scuola che ignora molte delle intelligenze
La scuola e i voti diventano un criterio per valutare non solo il valore del figlio ma anche dei genitori. La scuola è spesso un luogo competitivo, dove si viene facilmente etichettati come falliti se i risultati non sono all’altezza delle aspettative. Tra i diversi problemi c’è il fatto che la scuola si concentra quasi esclusivamente su due intelligenze: quella logico-matematica e quella linguistica, quando invece secondo il docente e psicologo Howard Gardner ne esistono almeno nove. Di conseguenza, chi ha un’eccellente intelligenza spaziale o interpersonale, musicale, corporea-cinestetica, intrapersonale, naturalistica ed esistenziale non è valutato come un individuo adeguato dalla scuola. E il confine tra il fatto che un individuo non adatto alla scuola (così come oggi è organizzata!) non possa integrarsi o essere felice è molto spesso superato da insegnanti e genitori.
Possiamo fare qualcosa per favorire la pace in questo contesto? Assolutamente sì. Favorire la varietà dell’insegnamento per favorire l’espressione di tutte le intelligenze può essere una strada. Dare valore all’educazione emozionale e all’intelligenza intrapersonale è un’altra direzione percorribile, soprattutto se pensiamo al fatto che quest’ultima intelligenza rappresenta la capacità di riconoscere la propria individualità, sentire cosa accade dentro di sé e riconoscere le proprie risorse e i limiti.
Consiglio a tutti di accogliere i figli con maggiore fiducia e curiosità. Anche se sono membri della famiglia, potenzialmente hanno talenti, destini e strumenti molto diversi dai genitori e dai nonni.
Accogliere se stessi per accogliere gli altri
Per potersi accogliere serve osare, incontrare, ascoltare e conoscere se stessi. Più sarai capace di accogliere te stesso ed essere in pace, più sarai capace di accogliere gli altri ed essere in pace con loro.
Già a scuola si possono aiutare bambine, bambini, ragazze e ragazzi a sviluppare la capacità di accogliere le proprie emozioni, riconoscerle e coltivare le competenze relazionali e di comunicazione e trasformazione dei conflitti.
Perché sia possibile, servirebbe che gli insegnanti in primis fossero competenti su questi aspetti. La buona notizia è che se anche da adulto non padroneggi queste competenze non è mai troppo tardi per svilupparle. Non conosco miglior investimento sul proprio benessere e sulla propria salute che quello di acquisire nuovi strumenti per avere relazioni sane con se stessi, le proprie emozioni e ovviamente anche gli altri.
È possibile così aumentare la capacità di mantenere un equilibrio dinamico nella vita e partecipare alla creazione di un presente di pace. E si può anche essere di sostegno come adulto nei confronti dei bambini, che sono gli adulti di domani e saranno i protagonisti nella costruzione del futuro.
Possiamo migliorare in qualunque momento le competenze relazionali e di trasformazione dei conflitti
Combattere la guerra o fare pace?
Quando ci diamo un obiettivo, non è importante solo l’obiettivo in sé ma anche il modo che scegliamo per perseguirlo e così le parole che usiamo per pensare a questo obiettivo. Quando combatti la guerra con le armi della distruzione, alimentando rabbia e odio, non puoi raccogliere che altra rabbia e ancora odio.
Se non c’è coerenza tra il tuo scopo e gli strumenti che usi per cercare di raggiungerlo, l’obiettivo si allontanerà da te sempre di più. Per questo è fondamentale che la strada per la pace sia costruita con sentimenti e azioni di pace, lontani anni luce dalle armi e dalla distruzione. Per riuscire in qualunque impresa deve esserci coerenza tra fine e mezzi.
Un altro ingrediente fondamentale per favorire la pace riguarda ancora una volta noi stessi, Per favorire la pace in modo attivo ed efficace, infatti, dobbiamo essere in pace, rispettare i nostri valori e nutrire ciò che ci rende felici. Solo così possiamo trovare la forza per perseguire obiettivi anche molto difficili da raggiungere, sentendoci sempre in accordo con noi stessi. Tutto questo è proprio il contrario del proverbio machiavellico “il fine giustifica i mezzi”. Come diceva Gandhi: “tali i mezzi, così i fini”; in altre parole, quel che semini raccoglierai.
Se hai bisogno di incitare te stesso lungo un cammino complesso, piuttosto di immaginare che stai “lottando contro qualcosa” pensa invece che ti stai “battendo per qualcosa”.
Da dove arriva un punto di vista?
Di fronte a un punto di vista, ti propongo di porti ogni volta alcune domande. Il punto di vista per il quale stai combattendo ferocemente, nasce da una tua esperienza personale diretta? Se non è un’esperienza diretta, sei sicuro della validità delle tue fonti di informazione? Sei sicuro che quello che ti è stato detto o mostrato sia reale?
Purtroppo, la televisione e i media in generale sono mezzi di trasmissione di massa (non di comunicazione: la comunicazione è altra cosa), che focalizzano l’attenzione sul pericolo e il dramma, favorendo la dualità. Quando stiamo assistendo in prima persona e dal vivo a una situazione, abbiamo già un punto di vista ridotto. Nonostante sia possibile guardare a destra, a sinistra, davanti e dietro, mi piace dire che vediamo la realtà dal buco della serratura.
La parzialità dell’informazione aumenta drasticamente quando la realtà è trasmessa tramite una videocamera: il cameraman può scegliere un angolo specifico per mettere in evidenza qualche dettaglio e nasconderne altri, veicolando così alcune emozioni e orientando le interpretazioni.
Visti i rischi di manipolazione, volontaria o meno, credo sia saggio dubitare, prima di prendere un’informazione parziale come base o fondamenta della propria lotta. La mia proposta è di verificare le fonti e studiare approfonditamente: è bene riconoscere la complessità delle situazioni.
Quando non hai tempo e voglia di approfondire, autorizzati a dire “non lo so”, “non sono abbastanza informato per avere un’opinione su questo argomento”, non posso sapere “chi ha ragione e chi ha torto“. Potrai, immagino, trovarti d’accordo con molte persone sul fatto che la guerra è un dramma e che sarebbe molto bello trovare insieme soluzioni per favorire la pace.
Non sempre possiamo essere sicuri che quello che ci è stato detto o mostrato sia reale
Conflitti lontani e conflitti vicini
Ispirandomi a una frase attribuita a Madre Teresa di Calcutta, vorrei ricordare che “se tutti pulissero davanti alla propria porta di casa, il mondo sarebbe pulito”. Ti suggerisco di dedicare tempo ed energia per trasformare i conflitti in cui sei direttamente coinvolto, quelli davanti alla tua porta di casa. Parlo dei conflitti con i membri della tua famiglia di origine, con quelli della tua famiglia acquisita, con i colleghi di lavoro, con i vicini di casa e così via.
Trasformando i conflitti nel tuo ambito di azione, farai molto di più per la pace nel mondo rispetto a quando, per esempio, nutri odio per degli sconosciuti che vedi in televisione. Esistono conoscenze fondamentali tratte dagli studi sulla pace che trasformano una missione che sembra impossibile in un percorso pieno di soddisfazioni. Non serve essere un esperto: queste conoscenze sono accessibili a tutti. Se risparmi tempo ed energia evitando di alimentare rabbia, separazione, guerra, conflitti e odio, libererai tempo ed energia per studiare come favorire la pace.
Una goccia alla volta, un essere umano alla volta, la trasformazione diventa possibile.
Gran parte della mia attività professionale ha questo intento: aiutare le persone a creare pace, gioia e serenità, in sé stessi e intorno a loro. Per iniziare subito questo percorso prova a prenderti cura di te stesso favorendo rilassamento e benessere.
Giu 30, 2023 | Comunicazione in sanità, Consigli pratici
Favorire la guarigione: come professionisti dobbiamo compiere delle azioni per andare in questa direzione. Esistono anche azioni che esulano dai protocolli, dai medicinali, dalle terapie? Oggi, ho voglia di condividere con i colleghi dei consigli concreti per favorire il processo di guarigione del corpo e della mente. Nell’articolo precedente, rivolto al grande pubblico ma adatto anche ai professionisti, ho spiegato come ogni reazione di adattamento del corpo di fronte agli eventi della nostra vita sia un processo in due fasi. La prima è una fase attiva, di stress, in cui l’organismo si adatta alla situazione stressante, seguita da una seconda fase in cui l’organismo emerge dalla situazione stressante e finalmente si rilassa.
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Come ho già sottolineato la seconda fase, quella di vagotonia, è una fase “calda” che possiamo chiamare “di riparazione”: è accompagnata, quindi, da infiammazione ed edemi. Una situazione che i medici conoscono bene perché di solito è il momento in cui sono chiamati ad intervenire. Paradossalmente, spesso i dolori o l’infiammazione emergono proprio quando si esce da un periodo di stress e non durante.
Come accompagnare il processo di riparazione
Anche se possiamo dire che “i giochi” si fanno durante la fase attiva, quella di stress, ci sono comunque delle azioni che sia i pazienti sia i medici o più in generale i curanti possono compiere per guarire o comunque supportare la guarigione durante la fase di riparazione. In particolare, è possibile accompagnare il processo per limitare i disagi e la sofferenza.
La conoscenza combinata della Biologia, di questo peculiare andamento bifasico, dei processi cerebro/emotivo/organici e dei ritmi biologici permette di individuare quelle situazioni che rischiano di aggravare l’intensità dei sintomi e il circolo vizioso della paura.
Da queste conoscenze possiamo comprendere l’importanza di alcune situazioni e gesti che potrebbero essere considerati a torto cose senza grande importanza. Vediamo ora insieme quanto e perché è importante fare in modo che la persona malata si senta al sicuro e sperimenti la fiducia di poter migliorare.
Essere come un pesce fuor d’acqua
Il quadro di cui vi voglio parlare in questo articolo descrive una situazione che aumenta l’intensità dei sintomi, e può rendere la fase di riparazione un percorso molto complicato. Ciò si verifica quando la persona malata vive una situazione d’insicurezza. Più precisamente quando la persona perde i suoi punti di riferimento e percepisce di essere in lotta per la sua esistenza, come un pesce fuor d’acqua.
Il senso di solitudine in generale e più specificamente l’impressione di essere solo a lottare per la propria esistenza peggiora ulteriormente il quadro.
Quando un pesce si ritrova fuori dall’acqua, il suo organismo trattiene i liquidi nel tentativo di sopravvivere per il tempo necessario a ritornare nel suo ambiente naturale. Nelle condizioni emotive di insicurezza e perdita dei punti di riferimento, anche l’organismo umano trattiene i liquidi. Questo senso di lotta per l’esistenza e di insicurezza aumenta tutti gli edemi e l’intensità dell’infiammazione. La seconda fase, quella di riparazione, diventa allora maggiormente sintomatica.
L’insicurezza che fa reagire l’organismo è un’insicurezza viscerale. Ciò significa che entra in gioco il nostro animale interiore, non il nostro essere razionale pensante. Ci vorranno azioni concrete e pragmatiche per rassicurare l’animale interiore.
Ecco qualche esempio concreto che mette a confronto persone che si sentono visceralmente al sicuro e persone che invece si sentono come un pesce fuor d’acqua. Un trauma che comporta sofferenza ai legamenti del ginocchio che si esprime solitamente con un piccolo edema si esprimerà attraverso un edema intenso con ampio travaso quando la persona che lo subisce sperimenta una situazione di insicurezza. La stessa persona sperimenterà un dolore pari a 10 su 10 quando invece in un contesto di sicurezza e serenità il dolore potrebbe essere pari appena a 2.
Una leggera anemia diventa un’anemia severa. Un leggero sovrappeso diventa un’obesità vera e propria. Una semplice evacuazione diarroica diventa una dissenteria con fitte molto dolorose. Un piccolo disorientamento temporo-spaziale effimero diventa uno stato di costernazione costante in cui il paziente può sembrare demente eccetera. Gli esempi che possiamo fare sono infiniti.
Il senso di solitudine in generale e più specificamente l’impressione di essere solo a lottare per la propria esistenza peggiora ulteriormente il quadro
Il circolo vizioso
Oltre ai sintomi difficili da sopportare, un dolore di intensità 10 su 10, per esempio, può spaventare molto, la vita diventa più faticosa e la persona che lo prova può sentirsi concretamente in pericolo. Per non parlare della diagnosi di un’anemia severa. Diventa molto facile in questi contesti entrare in un circolo vizioso infernale, in cui i sintomi, la cui intensità è aumentata dall’insicurezza, fanno sentire prepotentemente il senso di pericolo.
Quando una situazione del genere si moltiplica per 3 o 4 sintomi e cause differenti il paziente si può sentire totalmente sopraffatto e dominato da un’angoscia viscerale.
Il contesto dell’ospedale
Vorrei ora attirare la tua attenzione su un luogo in cui una persona malata può sentirsi molto facilmente un pesce fuor d’acqua: l’ospedale.
Per il curante che lavora da tempo in ospedale, la struttura è un ambiente conosciuto e normale. Ogni individuo che ci lavora, per esempio, conosce i codici dei colori dei camici, spesso conosce bene le altre persone impiegate, gli ambienti gli sono famigliari così come le regole comuni. Il linguaggio tecnico è condiviso. Il curante può sentirsi a proprio agio e al sicuro in questo ambiente famigliare, per lui o lei è facile orientarsi! Come accade a un pesce nel proprio ambiente.
Tutto cambia per chi arriva in pronto soccorso a causa di un problema di salute. All’insicurezza percepita per il sintomo o il problema di salute, che ha spinto il paziente a presentarsi al pronto soccorso, si somma quella di trovarsi in un ambiente molto diverso da casa. Coloro che si ritrovano in pronto soccorso o ricoverati, percepiscono spesso l’ospedale come una terra sconosciuta.
Prova a immaginare. Per la maggior parte del tempo le persone care non sono con il malato. Il personale sanitario e gli altri pazienti sono perfetti sconosciuti. Il linguaggio tecnico medicale, per chi non è dell’ambiente, è incomprensibile. La struttura ospedaliera può sembrare un labirinto, in cui spostarsi e orientarsi diventa una sfida. Rapidamente, l’animale interiore di chiunque si può sentire un profugo in terra sconosciuta e attivare l’input a trattenere i liquidi.
All’insicurezza percepita per il sintomo, in ospedale si somma quella di trovarsi in un ambiente molto diverso da casa
Cosa fare per favorire la guarigione?
L’antidoto più efficace è il senso di sicurezza. Questo aiuta a guarire e attenuare i sintomi. Bisogna agire per sentirsi e far sentire il malato come a casa, al sicuro e sostenuto.
Le conoscenze e le competenze tecniche medicali dei professionisti in ospedale, che permettono al paziente di sentirsi nelle mani di persone preparate e serie, sono ovviamente importanti. Però non bastano. Cos’altro può aiutare a far sentire il paziente al sicuro e sostenuto?
Al paziente serve un curante che abbia quelle che si chiamano soft skills. Le soft skills sono le competenze relazionali, o competenze trasversali. Hanno a che fare con il saper essere piuttosto che il saper fare. Sono abilità personali e tratti del carattere che caratterizzano le relazioni fra le persone. E sono complementari alle competenze tecniche. Queste competenze possono essere innate, ma si imparano e si acquisiscono anche, come vale per ogni insegnamento tecnico: con studio serio e dedizione. Insegnarle è parte del mio impegno professionale.
Alcuni esempi concreti per aiutare a guarire prima e meglio
Facciamo alcuni esempi per chiarire cosa aiuta il paziente a sentirsi al sicuro con l’obiettivo di favorire la guarigione. Sto parlando ad esempio di: qualità della relazione, tempo dedicato, sguardo rassicurante, sorriso complice, il semplice fatto di essere tenuto per mano in un momento di ansia, ricevere spiegazioni chiare senza paroloni medici. In pratica… Per favorire la guarigione il paziente ha bisogno di confrontarsi con curanti umani, calmi, seri ed empatici.
Si comprende allora tutta l’importanza del saper comunicare e creare una relazione di fiducia, in cui la persona si sente presa in considerazione: ascoltata, rispettata e sostenuta. Un’altra cosa che consiglio sempre è chiamare la persona malata con il suo nome/cognome evitando espressioni come “quello del 37 finestra” o “la frattura del femore della stanza 42”.
Imparare a comunicare, creare una relazione di fiducia, chiamare la persona con il proprio nome sono tutte azioni concrete per favorire la guarigione
Diventa lampante anche l’importanza di autorizzare le visite di parenti e amici rassicuranti. (A questo scopo, la salvaguardia degli ospedali di periferia, vicini al domicilio delle persone, permette ai cari di fare regolarmente visita e favorire la guarigione dei malati). Altro elemento di grande valore è il ruolo dei volontari, pronti a dare informazioni a una persona apparentemente smarrita o a fare due chiacchiere con chi si trova solo.
L’ospedale non sarà mai come casa propria. Anzi: dev’essere il più possibile un luogo di passaggio in cui stare il minimo possibile. Ma quando il ricovero è necessario, è importante che il nostro animale interiore, quello che dirige la nostra biologia, si senta al sicuro.
Consigli pratici per favorire la guarigione
Oltre alla qualità dell’ESSERE del personale sanitario e dei volontari, non va sottovalutata l’importanza di lasciare alla persona in cura qualcosa che le ricordi casa sua (se è per lei/lui un luogo sicuro). Una coperta, un quadro con la foto di un parente, un amico o un animale domestico, oppure un altro oggetto famigliare. Un semplice esemplare della Settimana Enigmistica potrebbe anche bastare se la persona ne è un appassionato. Sogno un giorno in cui, nella prassi normale di accoglienza del paziente in ospedale, tra tutte le domande propriamente medicali poste al paziente ci sarà anche questa: desidera qualcosa da casa che potrebbe portarle un suo parente o un amico?
Nel momento dell’urgenza, quando non capiamo cosa accade al nostro corpo, sentirsi nelle mani di persone preparate e serie è la condizione prioritaria che allenta l’insicurezza. Passata l’urgenza, casa diventa il luogo privilegiato.
Infine, poiché siamo tutti diversi, va sottolineato che, per alcune persone, l’ospedale è il luogo più rassicurante. Specie per coloro che non hanno un sostegno a domicilio. Invece per tutti gli altri, che vivono situazioni armoniose, il luogo in cui si sentono più al sicuro, passata l’urgenza, è appunto casa loro.
Il fenomeno è molto evidente per gli anziani; spesso vanno incontro a veri e propri squilibri e peggiorano rapidamente quando sono strappati dal loro ambiente conosciuto. Lontani dalla loro casa, con i loro fiori e gli animali da curare, i ritmi consolidati, le routine su misura, deperiscono a vista d’occhio. Perdere i riferimenti li fa sprofondare in uno stato di costernazione e disorientamento spazio-temporale tale da non riconoscerli dopo soli due giorni di ricovero.
Il ricovero a domicilio
Di solito, il tempo delle cure vere e proprie, durante un ricovero, è di poche ore. Gran parte della giornata è fatta di tempi “morti”, in cui la persona aspetta che passi il tempo fra due visite, due esami o due trattamenti.
Facendo tesoro di queste informazioni, diventa evidente l’importanza di favorire il ricovero a domicilio. È ovviamente fondamentale che la persona malata venga seguita. Sogno un futuro prossimo in cui il sistema sanitario e più specificamente la medicina di territorio saranno organizzati molto bene a riguardo. Passata l’urgenza, quando la situazione a casa è propizia, potremmo allora proporre ai pazienti di essere seguiti dal proprio medico di fiducia o da una squadra sanitaria ad hoc, a casa propria. Tutto il tempo libero dalle cure sanitarie diventerà tempo speso in un luogo conosciuto, amato e famigliare, dove la persona potrà beneficiare della presenza dei propri affetti, oggetti e ambienti.
A casa tutto il tempo libero dalle cure sanitarie diventa tempo speso bene in un ambiente dove ci si sente al sicuro
L’esperienza dei curanti durante l’epidemia covid 19
L’esperienza recente ci ha mostrato quanto è stata vincente la cura dei pazienti a domicilio. L’attivazione di squadre sanitarie che operano erogando visite regolari e il supporto della telemedicina e dei colloqui telefonici hanno fatto sentire le persone malate sostenute e più al sicuro.
Invece, le persone che si sono sentite abbandonate dal proprio medico e dal sistema, con il divieto di presentarsi in ospedale per evitare di “occupare un posto” o “creare affollamento”, hanno avuto sintomi molto più intensi con un conseguente peggioramento e spesso esiti drammatici.
Partendo dalle informazioni condivise in questo articolo, si comprende anche l’aspetto biologico che spiega perché la comunicazione martellante dei media, che alimentava l’angoscia e l’insicurezza, sia stata dannosa e abbia trasformato un evento potenzialmente complicato in un dramma collettivo. Di fatto i media hanno ostacolato e rallentato la guarigione con il loro atteggiamento allarmistico. Spero che qualche giornalista o editore legga questo articolo e prenda coscienza del proprio potere sulla salute delle persone, così da usarlo d’ora in poi con cuore, serietà e consapevolezza.
In conclusione
Ogni persona e ogni azione che permetta al paziente di sentirsi al sicuro e sostenuto favorisce la guarigione. Questo perché aiuta concretamente ad attutire l’intensità dei dolori, degli edemi, dell’infiammazione e di qualunque sintomo proprio della fase di riparazione. Far sì che questo aspetto sia totalmente integrato nel percorso di cura è un potente contributo al processo naturale di autoguarigione. E anche un sostegno reale alle cure mediche propriamente dette.
Mag 26, 2023 | cambio culturale, Conoscersi, Consigli pratici
Prevenire le malattie è possibile? Ci sono delle azioni che possiamo mettere in pratica e che aiutano concretamente a fare quella che comunemente viene chiamata prevenzione?
La buona notizia è che ci sono delle cose che puoi fare per raggiungere questo obiettivo, che poi coincide con quello di coltivare salute e benessere, di cui spesso parlo in questo blog. Probabilmente, però, queste azioni non sono quelle che pensi e sono piuttosto lontane da quanto il sistema sanitario comunemente chiama “prevenzione”. Ma facciamo un passo alla volta, partendo da qualcosa che tutti conosciamo bene.
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La medicina convenzionale occidentale, così com’è organizzata oggi, è essenzialmente una medicina d’urgenza o comunque che interviene quando compaiono dei sintomi. Il medico non è quel professionista che possiamo consultare con l’obiettivo di mantenerci in buona salute.
In effetti, prendi un appuntamento con il tuo medico di base quando non ti senti bene oppure quando il tuo corpo, in qualche modo, ti sta parlando attraverso la manifestazione di sintomi che non sai interpretare. Talvolta se il sintomo ti sembra chiaro chiami direttamente uno specialista per indagare più a fondo nella patologia che pensi di avere. Tutto questo però non serve a prevenire le malattie.
La medicina occidentale convenzionale è soprattutto una medicina d’urgenza
Manca una cultura della prevenzione
Spesso mi stupisco di sentire utilizzare la parola prevenzione, quando invece quello che la medicina convenzionale occidentale fa non è vera prevenzione. Tutt’al più è diagnosi precoce, come nel caso degli screening per verificare lo stato di alcuni organi o tessuti. Oppure si tratta, piuttosto, di vere e proprie terapie farmacologiche, come le statine per contrastare il colesterolo, che possono provocare diversi effetti collaterali (per fare un esempio).
In occidente, non c’è una vera cultura della prevenzione come accade invece in oriente, grazie alla medicina cinese o ayurvedica. La prevenzione è proprio il focus di queste medicine che ho citato. Al punto che anni fa, quando ho studiato la medicina cinese, ho imparato che i medici cinesi tradizionali si facevano pagare per prevenire la malattia, mentre lavoravano gratuitamente nel momento in cui il loro paziente si ammalava. Esiste anche un detto che conferma questo approccio: Curare la malattia è come iniziare a scavare un pozzo quando si ha sete.
La soluzione nel cambiamento
Penso che l’assenza dell’integrazione di un approccio realmente preventivo sia una delle cause della saturazione del sistema sanitario attuale. Proprio poiché la cura si attiva quando le persone si ammalano, il sistema non riesce più a rispondere alla domanda. Si parla tanto di spese sanitarie troppo alte e di problemi di budget che non consentono di assumere ulteriore personale sanitario, mentre rivalutare dove e come si investe potrebbe rappresentare una svolta sana ed efficace.
Sottolineo intanto che prendere in cura una persona malata per riportarla a un equilibrio salutare è molto più dispendioso, economicamente ed emotivamente (sia per i professionisti sia per i pazienti) che aiutarla a mantenersi in salute.
In questo articolo vorrei presentarti un aspetto di quello che dal mio punto di vista rappresenta la vera prevenzione. Voglio offrirti spunti utili per riprendere in mano il potere sulla tutela della tua salute, partendo dalla conoscenza di te stesso. Così potrai prevenire le malattie. Ma prima, ecco qualche informazione di base sul funzionamento dell’organismo, per comprendere gli strumenti che voglio darti.
Poiché la cura si attiva quando le persone si ammalano, il sistema sanitario non riesce più a rispondere alla domanda
Tre livelli: cerebrale, emotivo e organico
In una situazione del tutto normale, ad ogni istante il cervello riceve ed elabora miliardi di informazioni. Nel caso tu abbia tendenza a sottovalutare l’attività del tuo cervello, ti fermo subito: sappi che mette in gioco 1 miliardo e mezzo di connessioni ogni nanosecondo. Nel momento in cui ricevi un’informazione, miliardi di cellule si attivano e qualcosa si muove in te: occhi, bile, dita, bocca… Di fronte a ogni stimolo sono tre i livelli dell’organismo che vengono messi in gioco: cerebrale, emotivo e organico.
Una zona del cervello si attiva per ricevere ed elaborare l’informazione. Si vive una percezione, in modo cosciente oppure no, e parte immediatamente un ordine neurologico per stimolare l’azione di una parte del corpo specifica: un muscolo, una ghiandola, il tessuto di un organo eccetera. Le informazioni arrivano a volte in modo percepibile dalla coscienza come, ad esempio, il canto di un uccello, il sorriso di una persona, la sensazione della pioggia sul viso, il gusto di un biscotto, e così via. Altre volte sono inconsce, come i pollini nell’aria, un dettaglio nel nostro campo visivo sul quale non stiamo portando l’attenzione, i nutrimenti contenuti nel biscotto, un’informazione vibrazionale eccetera.
Di fronte ad ogni informazione ricevuta, l’organismo vive un percepito biologico e/o emotivo, anch’esso a volte conscio, a volte inconscio. L’organismo, per esempio, percepisce, senza bisogno che il fatto arrivi alla coscienza, se un cibo è tossico o vitale. Percepisce anche se un suono è piacevole o disturbante… In questo caso a volte il suono arriva alla coscienza, e così anche il percepito, altre volte tutto succede nella totale inconsapevolezza.
Le azioni biologiche automatiche
La ricezione dell’informazione crea contemporaneamente delle azioni biologiche automatiche. Appena ricevuta un’informazione, infatti, il cervello lancia degli stimoli nervosi ad alcune parti del corpo. A volte queste azioni e i loro effetti sono visibili: ad esempio passare la mano nei capelli, grattarsi l’orecchio, starnutire.
Altre volte, invece, sono del tutto invisibili. Per esempio, la contrazione dello stomaco, la dilatazione di un’arteria, il rallentamento del battito cardiaco, l’aumento della produzione di ormoni della tiroide e così via. Ad ogni stimolo, per riassumere, corrispondono un percepito e un’azione biologica. Stiamo parlando di miliardi di stimoli al secondo, cioè miliardi di processi e di triadi percezione-vissuto emotivo/biologico-azione.
Cosa accade in una situazione di stress breve e contenuto?
Gli stimoli, nel nostro vissuto quotidiano, sono più o meno intensi e lo stesso vale per le nostre reazioni. In una situazione di stress contenuto, quasi equiparabile a quello fisiologico e necessario per essere svegli e reattivi giorno dopo giorno, il corpo funziona in modalità di routine. Si alternano momenti di stress e di rilassamento. Tutto rimane nell’ambito della normalità.
Di alcuni momenti di stress siamo consci. È il caso, ad esempio, dello stress legato al fatto di guidare nel traffico e vedersi sbucare di fronte un’auto all’improvviso. Non appena gestito l’imprevisto ci rilassiamo. Lo stesso vale per lo stress che vivi quando devi parlare in pubblico e spiegare concetti complessi: se ti è capitato, sai che ti rilassi non appena vedi che chi ti sta di fronte capisce e ti sta seguendo, oppure quando finisce l’intervento. Anche lo stress per un figlio che vive un momento di difficoltà funziona in questo modo. Quando il momento è superato si torna in uno stato di rilassamento. Gli esempi che potremmo fare sono infiniti.
Gli stimoli, nel nostro vissuto quotidiano, possono essere più o meno intensi e lo stesso vale per le nostre reazioni
Un processo bifasico
In questa alternanza di stress e rilassamento riconosciamo un processo bifasico, cioè in due fasi. La prima corrisponde a quella dello stress attivo. In base al tipo di vissuto, durante questa fase l’organismo aumenta o diminuisce la funzione di un organo o di una ghiandola, per esempio. Può anche aumentare o diminuire il numero di cellule di un tessuto specifico. Tutto dipende dalla tipologia di vissuto psico-biologico e dall’origine embriologica del tessuto coinvolto.
Durante la seconda fase, la fase di vagotonia (cioè quando ti rilassi perché non sei più stressato a causa dell’evento che aveva generato tensione), l’organismo compie l’azione opposta rispetto a quella osservata in fase attiva. In pratica: se durante la fase di stress attivo il corpo aveva aumentato la funzione di un organo o di un tessuto, nella successiva fase di rilassamento la funzione tornerà al livello normale, a volte calerà addirittura drasticamente.
Se durante la fase di stress attivo l’organismo aveva aumentato il numero di cellule fino a creare un ispessimento o una massa, in fase di rilassamento il corpo eliminerà queste cellule, diventate oramai inutili. Viceversa, quando durante il momento di stress vengono eliminate alcune cellule, assottigliando un tessuto o creando delle ulcere, in fase di vagotonia il tessuto ricrescerà e le ulcere saranno richiuse.
L’intensità dei sintomi della fase di riparazione
La seconda fase, quella di vagotonia, che possiamo identificare come una fase di riparazione, è una fase calda. Essa cioè è accompagnata da edemi e infiammazione. Paradossalmente, spesso i dolori o l’infiammazione emergono proprio quando ci rilassiamo, dopo un periodo di stress. Ti è mai capitato di ammalarti proprio nei primi giorni delle vacanze, dopo mesi di sovraccarico lavorativo? Oppure hai sofferto di mal di testa nel fine settimana, dopo giorni di tensione?
Spesso, i sintomi infiammatori della domenica sera o del lunedì sono correlati a una situazione vissuta in modo stressante durante il weekend. Viceversa, i sintomi dei giorni di riposo sono correlati a una situazione vissuta in modo stressante durante la settimana lavorativa. Le reazioni infiammatorie ed edematose a seguito di stress brevi (di pochi secondi o minuti) e poco intensi, sono di fatto asintomatiche. Non sentiamo sintomi specifici oppure sono così lievi ed effimeri che passano inosservati. Ma non è sempre così.
Spesso dolori e infiammazione compaiono proprio quando ci rilassiamo
A una ricezione intensa corrisponde una reazione intensa
Di fronte a una situazione in cui lo stress generato è elevato e duraturo (giorni, mesi, anni…), l’organismo adatta comunque il suo funzionamento. Le reazioni organiche però diventano più intense e persistenti. Da qui dipende ciò che percepiamo come sintomi, che a volte coinvolgono vere e proprie modifiche organiche come masse, addensamenti dei tessuti o ulcere.
Tali cambiamenti non solo li sentiamo, ma possiamo anche osservarli grazie agli esami clinici (auscultazione, palpazione e simili) e paraclinici (esami biologici di laboratorio, esami di diagnostica per immagini come radiografie, ecografie, tac eccetera). Che lo stress sia lieve e breve o intenso e duraturo, si ripete sempre il paradigma dei 3 livelli: cerebrale, emotivo e organico.
Se la fase di riparazione in seguito a uno stress lieve e breve è spesso asintomatica, quella in seguito a uno stress intenso e duraturo può essere molto sintomatica. Si, la fase di riparazione è solitamente la fase la più difficile da vivere, poiché si hanno maggiori sintomi come dolori, infiammazione, limitazioni funzionali. Al di fuori dei check-up a cui potresti aver l’abitudine di sottoporti in assenza di sintomi, questo è il momento in cui di solito ti preoccupi e prenoti delle indagini aggiuntive. Magari in questa fase vengono anche diagnosticate delle malattie.
Non sapendo che questi sintomi fanno parte di un processo sensato, pazienti e curanti si possono spaventare. Di conseguenza, capita che i sintomi e le diagnosi portino le persone a vivere nuovi stress intensi e duraturi, che scatenano ulteriori reazioni del corpo. Si può così entrare in un circolo vizioso dovuto alla mancanza di consapevolezza e alla paura della malattia e dei suoi sintomi.
Di fronte a uno stress elevato e duraturo le reazioni organiche diventano più intense e persistenti, sono ciò che chiamiamo sintomi
Prevenire l’intensità e la durata della fase attiva di stress
La fase di riparazione da sola non può esistere. Accade solo come conseguenza alla fase attiva di stress e si manifesta quando la persona finalmente esce dalla situazione stressante. Una volta superato lo stress, ciò che accade come conseguenza non può essere impedito.
Per prevenire le malattie e cioè abbassare l’intensità dei sintomi nella fase di riparazione, serve agire a monte, con l’obiettivo di limitare la durata e l’intensità dello stress vissuto in fase attiva. A questo scopo, un aiuto concreto nel quotidiano ha a che fare con la capacità di saper accogliere le proprie emozioni e lavorare sull’accettazione di sé e di qualunque evento accada. Poi serve agire per favorire tutto quello che permette di rispettare se stessi e vivere una vita in armonia con i propri bisogni e i propri valori.
Sto parlando di una vita in armonia con il proprio Essere profondo. Rispettare i propri ritmi, avere cura dei propri bisogni fisiologici, conoscere se stessi, saper comunicare e creare relazioni armoniose, lasciare scorrere la vita dentro evitando di ostacolare il proprio movimento vitale interiore, come racconto anche qui. Da tutto quanto ho elencato, diventa evidente che quando aiuto le persone a crearsi una vita armoniosa, non sto affatto dimenticando il mio essere medico al servizio della salute.
Il problema della disconnessione
Spesso ci adattiamo alle situazioni e ai bisogni degli altri perché non siamo più connessi a noi stessi, ai nostri bisogni e ai nostri desideri profondi. Quando ti succede questo non sei molto centrato e vivi in balia degli accadimenti e degli altri. È come lasciare il timone della tua vita al caso.
In tali condizioni, non stai realizzando il tuo potenziale e non metti la ricchezza della tua unicità al servizio degli altri. La vita perde parte del suo senso. Diventa un insieme di obblighi che potresti affrontare come un automa e perdi la grande opportunità di vivere nella gioia.
Poiché non ascolti più te stesso, dimentichi anche di soffermarti sullo stress e sulle varie tensioni vissute. Non ti accorgi di essere in fase attiva di stress e di conseguenza non cerchi nemmeno soluzioni, così la situazione stressante si prolunga. Il corpo, invece, è sempre connesso alla realtà. Sente tutto lo stress e il disagio che attraversi, e agisce per adattarsi e sopravvivere.
Quando non si realizza il proprio potenziale la vita perde parte del suo senso
Cosa fare, invece, per prevenire le malattie e vivere meglio?
Spesso è in qualche modo necessario vivere situazioni insopportabili per ricevere la scossa che permette di capire che è il momento di cambiare. Il cambiamento inizia mettendosi al centro della propria vita.
Un cambiamento che prima di tutto è interiore, perché riprenderai ad ascoltarti, ad accogliere ed esprimere le tue emozioni, a rispettare te stesso, a farti rispettare dagli altri e soprattutto a creare situazioni in sintonia con i tuoi valori. In questo modo getterai le basi per l’espressione del tuo potenziale di gioia, salute e serenità. E potrai prevenire le malattie.
Certamente il mio consiglio è quello di non aspettare una situazione estrema. Molto meglio iniziare prima un percorso per recuperare la legittimità di mettersi al centro della propria vita, riprenderne il timone e lasciarsi guidare dalle proprie sensazioni. Saranno allora gioia e leggerezza, piuttosto che pesantezza e insoddisfazione, a guidarti e inviarti i segnali “giusti”, quelli che comunicano se avvicinarti o allontanarti da certe situazioni, persone, scelte lavorative…
La strategia che ti consiglio per prevenire le malattie consiste nel diventare molto sensibile ai segnali del tuo corpo. Ciò significa ascoltare ad esempio la tensione, le contratture, le intolleranze. Non per nutrire l’angoscia e la paura della malattia ma al contrario per agire in modo tempestivo e uscire da situazioni sgradite.
Potrai così limitare l’intensità e la durata della fase di stress. Di conseguenza sarà molto meno duratura e intensa la fase di riparazione, l’intensità e la durata dell’infiammazione e degli edemi. Quindi saranno meno intensi i sintomi fisici ed emotivi nel complesso.
Ti auguro belle scoperte e sempre maggiore gioia e serenità nel sperimentare la vera prevenzione, quella che include la salute, il benessere e l’espressione del proprio potenziale.