Set 29, 2023 | cambio culturale, Comunicazione in sanità
Comunicare diagnosi e prognosi in modo professionale e allo stesso tempo empatico non è affatto facile. La diagnosi, ovvero il giudizio clinico che riconosce la malattia è spesso una doccia fredda per i pazienti, anche quando c’è la consapevolezza che qualcosa non va. La prognosi, cioè la previsione sul decorso e sull’esito di una condizione morbosa, può essere ancora più difficile da comprendere e accettare.
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Professionisti sanitari, terapeuti e più in generale qualunque persona che abbia scelto di mettersi al servizio della salute e del benessere degli individui, di solito studiano anni per acquisire le proprie competenze. In questo modo raggiungono un potenziale incredibile per aiutare, sostenere e prendersi cura delle altre persone. Tale opportunità può essere seriamente compromessa da una scarsa capacità di comunicare e da un posizionamento errato nella relazione con gli assistiti.
La mancata preparazione su questi due aspetti diventa ancora più lampante quando si deve comunicare diagnosi e prognosi. Avere delle competenze in termini di relazione e comunicazione è indispensabile per mettere a frutto le proprie competenze nella cura dei pazienti. Ciò permette anche di essere al servizio degli altri con cuore e serietà, nel rispetto di sé e delle proprie energie.
È per questa ragione che ho scelto di dedicare parte della mia attività e del mio tempo, come terapeuta e come medico, all’insegnamento delle tecniche di comunicazione in ambito sanitario e ad aiutare a creare una relazione di cura sana e serena.
In questo articolo voglio spiegare perché comunicare diagnosi e prognosi in modo sbagliato e maldestro porta a conseguenze molto deleterie.
Avere delle competenze in termini di relazione e comunicazione è indispensabile per mettere a frutto le proprie competenze di cura
Le competenze di comunicazione sono parte della cura
Le modalità che si utilizzano per comunicare con il paziente sono estremamente importanti. Una pessima comunicazione è nefasta di per sé, indipendentemente da quello che si comunica.
Come medici e terapeuti è necessario comprendere l’importanza delle parole che usiamo e quanto è fondamentale saper comunicare diagnosi e prognosi in modo efficace. Il curante deve conoscere il potere delle proprie parole e l’impatto che esse possono avere, sia in termini negativi sia positivi, soprattutto su una persona in condizioni di fragilità.
Il punto di vista biologico
Negli articoli pubblicati su questo blog ho raccontato spesso situazioni che possono aggravare la situazione di un malato. Abbiamo visto quanto è importante che il paziente si senta al sicuro, “come un pesce dentro l’acqua”. Ho anche sottolineato in diverse occasioni quanto la comunicazione, verbale e non verbale, abbia un impatto importante sulla fiducia che il paziente può riporre nel curante.
Abbiamo parlato in passato del fatto che l’insicurezza aggrava l’intensità dei sintomi e rischia di risucchiare il paziente in un circolo vizioso che può arrivare ad essere mortale. Non si tratta solo di stati emotivi ma di dati biologici: l’emotività è molto più importante di quello che tanti pensano.
In questo articolo ho scelto di illustrare una delle situazioni che spesso peggiorano i sintomi di chi vive una condizione di malattia e che rischiano di rendere la situazione molto più pesante, qualunque essa sia.
Il vissuto emotivo può far sentire ai pazienti di non avere scampo. Questo vissuto emotivo che stiamo descrivendo, nello specifico, scatena un processo biologico che porta l’organismo ad aumentare fortemente il proprio metabolismo. Si mette in moto una tensione/agitazione viscerale. E se la situazione è intensa e/o duratura rischia di provocare una rapida perdita di peso.
In casi estremi si arriva a uno stato di vera e propria prostrazione. Il paziente è immobile, chiuso in se stesso e totalmente coinvolto in uno stato di ansia viscerale irrefrenabile, che impedisce alla persona di riposare e rigenerarsi.
In questo stato emotivo tutte le sensazioni percepite risultano amplificate. Una piccola infiammazione diventa intensa e molto sintomatica, un dolore che sarebbe stato di 3 punti su 10 per intensità è percepito come un dolore intensissimo da 10 su 10 e così via.
La comunicazione, verbale e non verbale, ha un impatto importante sulla fiducia che il paziente ripone nel curante
Un vissuto che tutti abbiamo già incontrato
Senza arrivare obbligatoriamente ai casi più estremi, è capitato a tutti noi di provare questa sensazione di fortissima ansia, anche solo per pochi secondi o minuti. Facciamo qualche esempio.
Ritroviamo questa forma di agitazione e irritazione, per esempio, in una persona che ha dolori ricorrenti da giorni, senza un sollievo. La sensazione di non avere via di scampo dal dolore rende il dolore stesso davvero più intollerabile.
Una situazione d’insonnia che costringe a passare le ore notturne svegli, notte dopo notte, senza trovare il modo di riposarsi, provoca una tensione sempre maggiore che non favorisce la fine di tale calvario.
Molto probabilmente questo è capitato anche a te: il caldo che proviamo di notte in piena estate, che ci impedisce di dormire, ci porta ad agitarci sempre di più, fino a quando non troviamo una soluzione, anche parziale. Un lenzuolo bagnato, per esempio, può temporaneamente migliorare la situazione. Anche se il caldo non accenna a diminuire… Ci rilassiamo e i sintomi diminuiscono. Non solo per il lenzuolo ma perché in questo modo si vive il sollievo di aver trovato una via di scampo dal disagio.
Malattie considerate in fase terminale
Prendendo in considerazione i casi più estremi, la sensazione di non avere una via di scampo si manifesta molto spesso nelle persone che hanno ricevuto la diagnosi o la prognosi di una malattia “in fase terminale”.
Di fatto, questa fase della malattia porta nel nome stesso un messaggio nefasto, che comunica l’assenza di una via di scampo.
Lo stato emotivo conseguente alla diagnosi o alla prognosi può provocare una situazione che rischia di trascinare la persona in un circolo vizioso. Il paziente dimagrisce velocemente perché sente di non aver via di scampo. A quel punto, insieme ai suoi curanti, interpreta il dimagrimento come un peggioramento della malattia, come se lo erodesse da dentro. Ciò conferma a tutti lo stadio “terminale” della malattia. Ed è così che la persona rafforza il vissuto emotivo legato al fatto di non avere via di scampo.
Lo stato emotivo conseguente alla diagnosi o alla prognosi può provocare una situazione che rischia di trascinare la persona in un circolo vizioso
Comunicare diagnosi e prognosi, cosa non fare
Comunicare una diagnosi nefasta è già di per sé uno shock. Le modalità di comunicazione, però, possono a loro volta rappresentare un trauma che condiziona l’intero andamento della malattia.
Quando la patologia è presentata come incurabile o viene definita, per esempio, “degenerativa”, è facile che il paziente possa percepire il vissuto di non avere via di scampo: sente che sta per morire o che diventerà invalido per tutto il resto della sua vita.
La situazione viene peggiorata da tutti quei curanti che si permettono di comunicare diagnosi e prognosi in modo intempestivo e con parole errate.
Tanti medici, abituati alla malattia altrui e alla terminologia medica, inconsapevoli del potere delle loro stesse parole, sono soliti comunicare diagnosi e prognosi senza nessuna cautela. Ho sentito io stessa pronunciare frasi come “lei ha tre mesi di vita” piuttosto che “lei finirà in sedie a rotelle” oppure “a breve non potrà più respirare senza ausilio”.
Queste parole vengono spesso ricevute da chi le ascolta come sentenze che cadono dall’alto, pronunciate da chi conosce con certezza il futuro. Anche se non è affatto così.
A chi si permette di fare queste prognosi, o a chi crede in queste prognosi, ricordo che i medici sono esseri umani. Non abbiamo a disposizione nessuna sfera di cristallo: il futuro non è certezza fino a quando non accade.
Quanti di costoro si tratterrebbero se sapessero che il loro verdetto può diventare una profezia autoavverante? E questo non sempre perché la malattia sia grave, ma piuttosto a causa del modo che hanno scelto per comunicare diagnosi e prognosi.
Le modalità di comunicazione di una diagnosi possono rappresentare un ulteriore trauma
I consigli per comunicare diagnosi e prognosi in modo empatico
L’antidoto a quanto abbiamo appena descritto è più semplice di quello che si potrebbe pensare. Il curante deve aiutare il paziente a sentire visceralmente di avere una scelta. Un orizzonte aperto alla guarigione o almeno a soluzioni di miglioramento.
Tutto ciò che può aiutare a migliorare la situazione di ansia e insicurezza del paziente funziona come difesa dalla percezione che non ci sia una via di uscita e diminuisce le conseguenze negative della malattia.
Nessuna patologia è incurabile. Si può sempre curare una persona malata. Si può promettere senza mentire di fare del proprio meglio per accompagnare gli assistiti nel loro percorso, identificando strumenti utili a farli stare meglio. Solo la guarigione non può essere data per garantita.
L’intervento sintomatico aiuta in tutte le situazioni, regalando maggiore benessere e del tempo aggiuntivo per fare un lavoro alla radice della malattia e ottenere frutti duraturi. Quando c’è un dolore, un trattamento antidolorifico efficace permetterà al paziente di toccare con mano il fatto che c’è una possibilità di miglioramento, dunque una via d’uscita da quel dolore.
Qualsiasi strategia che permetta di diminuire un sintomo e migliorare la situazione è efficace per far sentire al paziente che c’è una via di uscita dalla malattia o dal malessere che accompagna la malattia.
La possibilità di curarsi come si vuole
Avere scelta significa anche poter scegliere come curarsi, nel rispetto dei propri valori. La volontà di interrompere un protocollo terapeutico, per esempio, dovrebbe essere sostenuta anche dai curanti.
Spesso, le cure proposte dalla medicina convenzionale tracciano un’unica strada. A cui a volte si accompagna una sentenza al limite del ricatto “o ti curi secondo questo protocollo messo a punto dalla medicina convenzionale o muori”.
È importante lasciare sempre alla persona una prospettiva di cura aperta. Sentirsi in gabbia stimola il nostro animale interiore a reagire. Dimagrire, biologicamente, permette di “passare attraverso le sbarre” e scappare…
L’ospedale dovrebbe essere vissuto come un luogo di opportunità e non come un carcere dal quale non si può evadere.
Avere scelta significa anche poter scegliere come curarsi, nel rispetto dei propri valori
La collaborazione con i pazienti
Nella mia esperienza le cure si dimostrano come più efficaci, sia per il paziente sia per il curante, quando il medico porta avanti un lavoro di crescita personale e di rispetto del sé. Rimettendosi al proprio posto di essere umano, al servizio della salute di un altro essere umano, le scelte non condivise che un paziente potrebbe fare possono essere vissute con rispetto e non come un’offesa personale.
La relazione può essere di collaborazione, senza bisogno di far pressione per convincere a tutti costi il malato a seguire “l’unica strada efficace”.
Di solito, dopo un lavoro serio di consapevolezza, i medici sentono meno il bisogno di dover salvare il paziente a tutti i costi. Questo sentimento di onnipotenza, dettato dalla buona volontà, è fonte di grande frustrazione e impotenza per tutti, curanti e malati.
Rimettersi al proprio posto, invece, permette di aiutare al meglio le persone, in modo serio e con il cuore ma senza perdere il rispetto per sé e per gli altri, partendo dal modo di comunicare diagnosi e prognosi con empatia e senza dare nulla per scontato.
L’importanza della medicina territoriale
Avendo compreso quanto sia importante che la persona si senta libera, nell’ottica di non percepirsi come un uccello in gabbia, si può capire quanto possa essere indispensabile tutto il lavoro di tutela e sviluppo della medicina territoriale. Anche, o forse soprattutto, per facilitare il ricovero a domicilio.
I pazienti cronici che necessitano di cure prolungate possono davvero migliorare se hanno la possibilità di alternare i periodi di ospedalizzazione alle terapie domiciliari, in un ambiente familiare. Si evita così che questi individui abbiano la sensazione di trovarsi rinchiusi.
Quando invece il ricovero in ospedale è necessario, la possibilità di uscire in giardino, all’aria aperta, in luoghi con un orizzonte visivo ampio, regala esperienze che nutrono il senso di aver una via di scampo e contribuiscono al benessere del nostro animale interiore.
Facilitare le terapie domiciliari può essere di grande aiuto perché permette ai pazienti di non sentirsi in gabbia
La medicina integrata può aprire gli orizzonti
La medicina integrata ha un grande valore in tutti quei casi in cui diagnosi e prognosi possono sembrare particolarmente difficili da affrontare. Ed è preziosa perché abbraccia vari punti di vista, approcci e strumenti di cura: un’opzione che migliora significativamente la condizione del paziente, perché lo aiuta a sentire nel profondo di avere una via, anzi più vie di uscita.
L’obiettivo è quello di cercare e trovare insieme varie possibilità di miglioramento e sperimentarle una alla volta. Se alcune opzioni non dimostrano l’efficacia desiderata, c’è la consapevolezza di avere a disposizione altre vie da esplorare insieme.
Giu 30, 2023 | Comunicazione in sanità, Consigli pratici
Favorire la guarigione: come professionisti dobbiamo compiere delle azioni per andare in questa direzione. Esistono anche azioni che esulano dai protocolli, dai medicinali, dalle terapie? Oggi, ho voglia di condividere con i colleghi dei consigli concreti per favorire il processo di guarigione del corpo e della mente. Nell’articolo precedente, rivolto al grande pubblico ma adatto anche ai professionisti, ho spiegato come ogni reazione di adattamento del corpo di fronte agli eventi della nostra vita sia un processo in due fasi. La prima è una fase attiva, di stress, in cui l’organismo si adatta alla situazione stressante, seguita da una seconda fase in cui l’organismo emerge dalla situazione stressante e finalmente si rilassa.
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Come ho già sottolineato la seconda fase, quella di vagotonia, è una fase “calda” che possiamo chiamare “di riparazione”: è accompagnata, quindi, da infiammazione ed edemi. Una situazione che i medici conoscono bene perché di solito è il momento in cui sono chiamati ad intervenire. Paradossalmente, spesso i dolori o l’infiammazione emergono proprio quando si esce da un periodo di stress e non durante.
Come accompagnare il processo di riparazione
Anche se possiamo dire che “i giochi” si fanno durante la fase attiva, quella di stress, ci sono comunque delle azioni che sia i pazienti sia i medici o più in generale i curanti possono compiere per guarire o comunque supportare la guarigione durante la fase di riparazione. In particolare, è possibile accompagnare il processo per limitare i disagi e la sofferenza.
La conoscenza combinata della Biologia, di questo peculiare andamento bifasico, dei processi cerebro/emotivo/organici e dei ritmi biologici permette di individuare quelle situazioni che rischiano di aggravare l’intensità dei sintomi e il circolo vizioso della paura.
Da queste conoscenze possiamo comprendere l’importanza di alcune situazioni e gesti che potrebbero essere considerati a torto cose senza grande importanza. Vediamo ora insieme quanto e perché è importante fare in modo che la persona malata si senta al sicuro e sperimenti la fiducia di poter migliorare.
Essere come un pesce fuor d’acqua
Il quadro di cui vi voglio parlare in questo articolo descrive una situazione che aumenta l’intensità dei sintomi, e può rendere la fase di riparazione un percorso molto complicato. Ciò si verifica quando la persona malata vive una situazione d’insicurezza. Più precisamente quando la persona perde i suoi punti di riferimento e percepisce di essere in lotta per la sua esistenza, come un pesce fuor d’acqua.
Il senso di solitudine in generale e più specificamente l’impressione di essere solo a lottare per la propria esistenza peggiora ulteriormente il quadro.
Quando un pesce si ritrova fuori dall’acqua, il suo organismo trattiene i liquidi nel tentativo di sopravvivere per il tempo necessario a ritornare nel suo ambiente naturale. Nelle condizioni emotive di insicurezza e perdita dei punti di riferimento, anche l’organismo umano trattiene i liquidi. Questo senso di lotta per l’esistenza e di insicurezza aumenta tutti gli edemi e l’intensità dell’infiammazione. La seconda fase, quella di riparazione, diventa allora maggiormente sintomatica.
L’insicurezza che fa reagire l’organismo è un’insicurezza viscerale. Ciò significa che entra in gioco il nostro animale interiore, non il nostro essere razionale pensante. Ci vorranno azioni concrete e pragmatiche per rassicurare l’animale interiore.
Ecco qualche esempio concreto che mette a confronto persone che si sentono visceralmente al sicuro e persone che invece si sentono come un pesce fuor d’acqua. Un trauma che comporta sofferenza ai legamenti del ginocchio che si esprime solitamente con un piccolo edema si esprimerà attraverso un edema intenso con ampio travaso quando la persona che lo subisce sperimenta una situazione di insicurezza. La stessa persona sperimenterà un dolore pari a 10 su 10 quando invece in un contesto di sicurezza e serenità il dolore potrebbe essere pari appena a 2.
Una leggera anemia diventa un’anemia severa. Un leggero sovrappeso diventa un’obesità vera e propria. Una semplice evacuazione diarroica diventa una dissenteria con fitte molto dolorose. Un piccolo disorientamento temporo-spaziale effimero diventa uno stato di costernazione costante in cui il paziente può sembrare demente eccetera. Gli esempi che possiamo fare sono infiniti.
Il senso di solitudine in generale e più specificamente l’impressione di essere solo a lottare per la propria esistenza peggiora ulteriormente il quadro
Il circolo vizioso
Oltre ai sintomi difficili da sopportare, un dolore di intensità 10 su 10, per esempio, può spaventare molto, la vita diventa più faticosa e la persona che lo prova può sentirsi concretamente in pericolo. Per non parlare della diagnosi di un’anemia severa. Diventa molto facile in questi contesti entrare in un circolo vizioso infernale, in cui i sintomi, la cui intensità è aumentata dall’insicurezza, fanno sentire prepotentemente il senso di pericolo.
Quando una situazione del genere si moltiplica per 3 o 4 sintomi e cause differenti il paziente si può sentire totalmente sopraffatto e dominato da un’angoscia viscerale.
Il contesto dell’ospedale
Vorrei ora attirare la tua attenzione su un luogo in cui una persona malata può sentirsi molto facilmente un pesce fuor d’acqua: l’ospedale.
Per il curante che lavora da tempo in ospedale, la struttura è un ambiente conosciuto e normale. Ogni individuo che ci lavora, per esempio, conosce i codici dei colori dei camici, spesso conosce bene le altre persone impiegate, gli ambienti gli sono famigliari così come le regole comuni. Il linguaggio tecnico è condiviso. Il curante può sentirsi a proprio agio e al sicuro in questo ambiente famigliare, per lui o lei è facile orientarsi! Come accade a un pesce nel proprio ambiente.
Tutto cambia per chi arriva in pronto soccorso a causa di un problema di salute. All’insicurezza percepita per il sintomo o il problema di salute, che ha spinto il paziente a presentarsi al pronto soccorso, si somma quella di trovarsi in un ambiente molto diverso da casa. Coloro che si ritrovano in pronto soccorso o ricoverati, percepiscono spesso l’ospedale come una terra sconosciuta.
Prova a immaginare. Per la maggior parte del tempo le persone care non sono con il malato. Il personale sanitario e gli altri pazienti sono perfetti sconosciuti. Il linguaggio tecnico medicale, per chi non è dell’ambiente, è incomprensibile. La struttura ospedaliera può sembrare un labirinto, in cui spostarsi e orientarsi diventa una sfida. Rapidamente, l’animale interiore di chiunque si può sentire un profugo in terra sconosciuta e attivare l’input a trattenere i liquidi.
All’insicurezza percepita per il sintomo, in ospedale si somma quella di trovarsi in un ambiente molto diverso da casa
Cosa fare per favorire la guarigione?
L’antidoto più efficace è il senso di sicurezza. Questo aiuta a guarire e attenuare i sintomi. Bisogna agire per sentirsi e far sentire il malato come a casa, al sicuro e sostenuto.
Le conoscenze e le competenze tecniche medicali dei professionisti in ospedale, che permettono al paziente di sentirsi nelle mani di persone preparate e serie, sono ovviamente importanti. Però non bastano. Cos’altro può aiutare a far sentire il paziente al sicuro e sostenuto?
Al paziente serve un curante che abbia quelle che si chiamano soft skills. Le soft skills sono le competenze relazionali, o competenze trasversali. Hanno a che fare con il saper essere piuttosto che il saper fare. Sono abilità personali e tratti del carattere che caratterizzano le relazioni fra le persone. E sono complementari alle competenze tecniche. Queste competenze possono essere innate, ma si imparano e si acquisiscono anche, come vale per ogni insegnamento tecnico: con studio serio e dedizione. Insegnarle è parte del mio impegno professionale.
Alcuni esempi concreti per aiutare a guarire prima e meglio
Facciamo alcuni esempi per chiarire cosa aiuta il paziente a sentirsi al sicuro con l’obiettivo di favorire la guarigione. Sto parlando ad esempio di: qualità della relazione, tempo dedicato, sguardo rassicurante, sorriso complice, il semplice fatto di essere tenuto per mano in un momento di ansia, ricevere spiegazioni chiare senza paroloni medici. In pratica… Per favorire la guarigione il paziente ha bisogno di confrontarsi con curanti umani, calmi, seri ed empatici.
Si comprende allora tutta l’importanza del saper comunicare e creare una relazione di fiducia, in cui la persona si sente presa in considerazione: ascoltata, rispettata e sostenuta. Un’altra cosa che consiglio sempre è chiamare la persona malata con il suo nome/cognome evitando espressioni come “quello del 37 finestra” o “la frattura del femore della stanza 42”.
Imparare a comunicare, creare una relazione di fiducia, chiamare la persona con il proprio nome sono tutte azioni concrete per favorire la guarigione
Diventa lampante anche l’importanza di autorizzare le visite di parenti e amici rassicuranti. (A questo scopo, la salvaguardia degli ospedali di periferia, vicini al domicilio delle persone, permette ai cari di fare regolarmente visita e favorire la guarigione dei malati). Altro elemento di grande valore è il ruolo dei volontari, pronti a dare informazioni a una persona apparentemente smarrita o a fare due chiacchiere con chi si trova solo.
L’ospedale non sarà mai come casa propria. Anzi: dev’essere il più possibile un luogo di passaggio in cui stare il minimo possibile. Ma quando il ricovero è necessario, è importante che il nostro animale interiore, quello che dirige la nostra biologia, si senta al sicuro.
Consigli pratici per favorire la guarigione
Oltre alla qualità dell’ESSERE del personale sanitario e dei volontari, non va sottovalutata l’importanza di lasciare alla persona in cura qualcosa che le ricordi casa sua (se è per lei/lui un luogo sicuro). Una coperta, un quadro con la foto di un parente, un amico o un animale domestico, oppure un altro oggetto famigliare. Un semplice esemplare della Settimana Enigmistica potrebbe anche bastare se la persona ne è un appassionato. Sogno un giorno in cui, nella prassi normale di accoglienza del paziente in ospedale, tra tutte le domande propriamente medicali poste al paziente ci sarà anche questa: desidera qualcosa da casa che potrebbe portarle un suo parente o un amico?
Nel momento dell’urgenza, quando non capiamo cosa accade al nostro corpo, sentirsi nelle mani di persone preparate e serie è la condizione prioritaria che allenta l’insicurezza. Passata l’urgenza, casa diventa il luogo privilegiato.
Infine, poiché siamo tutti diversi, va sottolineato che, per alcune persone, l’ospedale è il luogo più rassicurante. Specie per coloro che non hanno un sostegno a domicilio. Invece per tutti gli altri, che vivono situazioni armoniose, il luogo in cui si sentono più al sicuro, passata l’urgenza, è appunto casa loro.
Il fenomeno è molto evidente per gli anziani; spesso vanno incontro a veri e propri squilibri e peggiorano rapidamente quando sono strappati dal loro ambiente conosciuto. Lontani dalla loro casa, con i loro fiori e gli animali da curare, i ritmi consolidati, le routine su misura, deperiscono a vista d’occhio. Perdere i riferimenti li fa sprofondare in uno stato di costernazione e disorientamento spazio-temporale tale da non riconoscerli dopo soli due giorni di ricovero.
Il ricovero a domicilio
Di solito, il tempo delle cure vere e proprie, durante un ricovero, è di poche ore. Gran parte della giornata è fatta di tempi “morti”, in cui la persona aspetta che passi il tempo fra due visite, due esami o due trattamenti.
Facendo tesoro di queste informazioni, diventa evidente l’importanza di favorire il ricovero a domicilio. È ovviamente fondamentale che la persona malata venga seguita. Sogno un futuro prossimo in cui il sistema sanitario e più specificamente la medicina di territorio saranno organizzati molto bene a riguardo. Passata l’urgenza, quando la situazione a casa è propizia, potremmo allora proporre ai pazienti di essere seguiti dal proprio medico di fiducia o da una squadra sanitaria ad hoc, a casa propria. Tutto il tempo libero dalle cure sanitarie diventerà tempo speso in un luogo conosciuto, amato e famigliare, dove la persona potrà beneficiare della presenza dei propri affetti, oggetti e ambienti.
A casa tutto il tempo libero dalle cure sanitarie diventa tempo speso bene in un ambiente dove ci si sente al sicuro
L’esperienza dei curanti durante l’epidemia covid 19
L’esperienza recente ci ha mostrato quanto è stata vincente la cura dei pazienti a domicilio. L’attivazione di squadre sanitarie che operano erogando visite regolari e il supporto della telemedicina e dei colloqui telefonici hanno fatto sentire le persone malate sostenute e più al sicuro.
Invece, le persone che si sono sentite abbandonate dal proprio medico e dal sistema, con il divieto di presentarsi in ospedale per evitare di “occupare un posto” o “creare affollamento”, hanno avuto sintomi molto più intensi con un conseguente peggioramento e spesso esiti drammatici.
Partendo dalle informazioni condivise in questo articolo, si comprende anche l’aspetto biologico che spiega perché la comunicazione martellante dei media, che alimentava l’angoscia e l’insicurezza, sia stata dannosa e abbia trasformato un evento potenzialmente complicato in un dramma collettivo. Di fatto i media hanno ostacolato e rallentato la guarigione con il loro atteggiamento allarmistico. Spero che qualche giornalista o editore legga questo articolo e prenda coscienza del proprio potere sulla salute delle persone, così da usarlo d’ora in poi con cuore, serietà e consapevolezza.
In conclusione
Ogni persona e ogni azione che permetta al paziente di sentirsi al sicuro e sostenuto favorisce la guarigione. Questo perché aiuta concretamente ad attutire l’intensità dei dolori, degli edemi, dell’infiammazione e di qualunque sintomo proprio della fase di riparazione. Far sì che questo aspetto sia totalmente integrato nel percorso di cura è un potente contributo al processo naturale di autoguarigione. E anche un sostegno reale alle cure mediche propriamente dette.