Favorire la pace giorno dopo giorno

Favorire la pace giorno dopo giorno

Possiamo favorire la pace nella nostra vita quotidiana e anche nel resto del mondo, partendo da quello che pensiamo, diciamo e facciamo in prima persona. In questo articolo vorrei mostrare una strada che tutti possono percorrere e che ha proprio l’obiettivo di favorire la pace in molti modi e in molte direzioni.

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Una premessa sulla guerra

Prima di parlare di pace vorrei fare una premessa sulla guerra che ritengo importante, per poi nominare la parola guerra il meno possibile nel corso di questo articolo. Purtroppo pace e guerra si alternano senza sosta. Sono anni che osservo la guerra, quella vicina e quella lontana. Dai “piccoli” conflitti tra gli esseri umani vicini a me, e che quindi conosco personalmente, fino ai grandi conflitti internazionali. C’è poi l’abitudine alla guerra contro la malattia, i virus e i batteri diffusa soprattutto in occidente. C’è la guerra tra due o più Paesi, popolazioni, gruppi etnici o religiosi, in zone del mondo che personalmente non ho mai visitato, della cui lingua, cultura e storia personalmente so molto poco.

Sono anni che osservo le persone schierarsi violentemente per o contro una persona, un Paese, un punto di vista e di conseguenza contro chiunque osi avere una visione differente dalla propria. Oppure contro chiunque si azzardi a dichiarare di non avere un’opinione.

Osservando quanto sia contagiosa la violenza e quanto sia facile farsi contagiare e influenzare da emozioni o situazioni come rabbia, odio, carenza di rispetto, mancanza di discernimento, mi sono chiesta molto spesso cosa possiamo fare per favorire la pace, l’equilibrio, l’amorevolezza, il rispetto, la gioia e il benessere.

L’importanza di agire nel qui e ora

La mia risposta, per quanto di vasta portata, è semplice. Possiamo favorire pace, equilibrio, amorevolezza, rispetto, gioia e benessere, agendo all’interno della nostra vita quotidiana. Quando e se lo facciamo, partecipiamo all’incremento di sentimenti e situazioni positive e benefiche che migliorano la qualità della vita di chiunque nel mondo, vicino e lontano rispetto a noi. Primo perché se anche una sola persona sta meglio ed è più sana, la popolazione globale è di conseguenza più sana. Secondo perché pace, amore, rispetto e gioia sono anch’essi contagiosi.

Nel qui e ora è dove possiamo agire: lì è dove abbiamo potere. So che ne sei consapevole, ma capita di dimenticarselo. Anzi molte persone se lo dimenticano e quindi ci tengo a ripeterlo. Non puoi cambiare gli altri: né quelli vicini né quelli lontani; tuttavia, lavorandoci su, puoi cambiare te stesso. L’obiettivo non è cambiare quello che sei, ma tornare a essere maggiormente quello che sei: favorire l’espressione del tuo potenziale luminoso.

Nel qui e ora è dove possiamo agire: lì è dove abbiamo potere

Favorire la pace accrescendo il potenziale di luce

La prima tappa, quella più importante, è accogliere quello che sei. Non c’è quasi nulla di più sfiancante e controproducente che lottare contro se stessi. La lotta contro te stesso ti condanna alla guerra ventiquattr’ore su ventiquattro, sette giorni su sette. Nessuna tregua fino alla fine della vita.

Favorire la pace con te stesso, vuol dire in prima istanza accoglierti, accettando i lati luminosi ma anche quelli oscuri e difficoltosi: i paradossi, le insicurezze, le incoerenze. Accogliere le tue emozioni senza sentirti in qualche modo obbligato a scaricare la responsabilità sugli altri. Vuol dire, piuttosto che “è lui/lei che mi fa sentire così”, provare a dire “io mi sento così”.
Riconoscere quello che si muove in noi, farne l’esperienza, lasciarsi attraversare è il primo passo per favorire la pace.

Superare gli ostacoli di un’educazione poco accogliente

Molti di noi non sono stati affatto educati all’accoglienza di se stessi e delle proprie emozioni. Siamo esseri sociali, di conseguenza appartenere a un clan e sentire di avere un posto riconosciuto da tutti all’interno della società è molto importante. A volte, però, questa necessità si trasforma in ansia che viene riversata sui figli e si rischia di non accoglierli con curiosità, per assistere in modo semplice e senza preconcetti allo sbocciare del loro potenziale.

Al contrario, si agisce (inconsapevolmente o meno) schiacciandoli con aspettative e pretese parentali. Troppo spesso, i genitori hanno molto chiaro quello che i propri figli dovrebbero fare e quello che dovrebbero essere per adattarsi e farsi apprezzare dalla società.

Troppo spesso, i genitori hanno molto chiaro quello che i propri figli dovrebbero fare

Una scuola che ignora molte delle intelligenze

La scuola e i voti diventano un criterio per valutare non solo il valore del figlio ma anche dei genitori. La scuola è spesso un luogo competitivo, dove si viene facilmente etichettati come falliti se i risultati non sono all’altezza delle aspettative. Tra i diversi problemi c’è il fatto che la scuola si concentra quasi esclusivamente su due intelligenze: quella logico-matematica e quella linguistica, quando invece secondo il docente e psicologo Howard Gardner ne esistono almeno nove. Di conseguenza, chi ha un’eccellente intelligenza spaziale o interpersonale, musicale, corporea-cinestetica, intrapersonale, naturalistica ed esistenziale non è valutato come un individuo adeguato dalla scuola. E il confine tra il fatto che un individuo non adatto alla scuola (così come oggi è organizzata!) non possa integrarsi o essere felice è molto spesso superato da insegnanti e genitori.

Possiamo fare qualcosa per favorire la pace in questo contesto? Assolutamente sì. Favorire la varietà dell’insegnamento per favorire l’espressione di tutte le intelligenze può essere una strada. Dare valore all’educazione emozionale e all’intelligenza intrapersonale è un’altra direzione percorribile, soprattutto se pensiamo al fatto che quest’ultima intelligenza rappresenta la capacità di riconoscere la propria individualità, sentire cosa accade dentro di sé e riconoscere le proprie risorse e i limiti.

Consiglio a tutti di accogliere i figli con maggiore fiducia e curiosità. Anche se sono membri della famiglia, potenzialmente hanno talenti, destini e strumenti molto diversi dai genitori e dai nonni.

Accogliere se stessi per accogliere gli altri

Per potersi accogliere serve osare, incontrare, ascoltare e conoscere se stessi. Più sarai capace di accogliere te stesso ed essere in pace, più sarai capace di accogliere gli altri ed essere in pace con loro.

Già a scuola si possono aiutare bambine, bambini, ragazze e ragazzi a sviluppare la capacità di accogliere le proprie emozioni, riconoscerle e coltivare le competenze relazionali e di comunicazione e trasformazione dei conflitti.

Perché sia possibile, servirebbe che gli insegnanti in primis fossero competenti su questi aspetti. La buona notizia è che se anche da adulto non padroneggi queste competenze non è mai troppo tardi per svilupparle. Non conosco miglior investimento sul proprio benessere e sulla propria salute che quello di acquisire nuovi strumenti per avere relazioni sane con se stessi, le proprie emozioni e ovviamente anche gli altri.

È possibile così aumentare la capacità di mantenere un equilibrio dinamico nella vita e partecipare alla creazione di un presente di pace. E si può anche essere di sostegno come adulto nei confronti dei bambini, che sono gli adulti di domani e saranno i protagonisti nella costruzione del futuro.

Possiamo migliorare in qualunque momento le competenze relazionali e di trasformazione dei conflitti

Combattere la guerra o fare pace?

Quando ci diamo un obiettivo, non è importante solo l’obiettivo in sé ma anche il modo che scegliamo per perseguirlo e così le parole che usiamo per pensare a questo obiettivo. Quando combatti la guerra con le armi della distruzione, alimentando rabbia e odio, non puoi raccogliere che altra rabbia e ancora odio.

Se non c’è coerenza tra il tuo scopo e gli strumenti che usi per cercare di raggiungerlo, l’obiettivo si allontanerà da te sempre di più. Per questo è fondamentale che la strada per la pace sia costruita con sentimenti e azioni di pace, lontani anni luce dalle armi e dalla distruzione. Per riuscire in qualunque impresa deve esserci coerenza tra fine e mezzi.

Un altro ingrediente fondamentale per favorire la pace riguarda ancora una volta noi stessi, Per favorire la pace in modo attivo ed efficace, infatti, dobbiamo essere in pace, rispettare i nostri valori e nutrire ciò che ci rende felici. Solo così possiamo trovare la forza per perseguire obiettivi anche molto difficili da raggiungere, sentendoci sempre in accordo con noi stessi. Tutto questo è proprio il contrario del proverbio machiavellico “il fine giustifica i mezzi”. Come diceva Gandhi: “tali i mezzi, così i fini”; in altre parole, quel che semini raccoglierai.

Se hai bisogno di incitare te stesso lungo un cammino complesso, piuttosto di immaginare che stai “lottando contro qualcosa” pensa invece che ti stai “battendo per qualcosa”.

Da dove arriva un punto di vista?

Di fronte a un punto di vista, ti propongo di porti ogni volta alcune domande. Il punto di vista per il quale stai combattendo ferocemente, nasce da una tua esperienza personale diretta? Se non è un’esperienza diretta, sei sicuro della validità delle tue fonti di informazione? Sei sicuro che quello che ti è stato detto o mostrato sia reale?

Purtroppo, la televisione e i media in generale sono mezzi di trasmissione di massa (non di comunicazione: la comunicazione è altra cosa), che focalizzano l’attenzione sul pericolo e il dramma, favorendo la dualità. Quando stiamo assistendo in prima persona e dal vivo a una situazione, abbiamo già un punto di vista ridotto. Nonostante sia possibile guardare a destra, a sinistra, davanti e dietro, mi piace dire che vediamo la realtà dal buco della serratura.

La parzialità dell’informazione aumenta drasticamente quando la realtà è trasmessa tramite una videocamera: il cameraman può scegliere un angolo specifico per mettere in evidenza qualche dettaglio e nasconderne altri, veicolando così alcune emozioni e orientando le interpretazioni.

Visti i rischi di manipolazione, volontaria o meno, credo sia saggio dubitare, prima di prendere un’informazione parziale come base o fondamenta della propria lotta. La mia proposta è di verificare le fonti e studiare approfonditamente: è bene riconoscere la complessità delle situazioni.

Quando non hai tempo e voglia di approfondire, autorizzati a dire “non lo so”, “non sono abbastanza informato per avere un’opinione su questo argomento”, non posso sapere “chi ha ragione e chi ha torto“. Potrai, immagino, trovarti d’accordo con molte persone sul fatto che la guerra è un dramma e che sarebbe molto bello trovare insieme soluzioni per favorire la pace.

Non sempre possiamo essere sicuri che quello che ci è stato detto o mostrato sia reale

Conflitti lontani e conflitti vicini

Ispirandomi a una frase attribuita a Madre Teresa di Calcutta, vorrei ricordare che “se tutti pulissero davanti alla propria porta di casa, il mondo sarebbe pulito”. Ti suggerisco di dedicare tempo ed energia per trasformare i conflitti in cui sei direttamente coinvolto, quelli davanti alla tua porta di casa. Parlo dei conflitti con i membri della tua famiglia di origine, con quelli della tua famiglia acquisita, con i colleghi di lavoro, con i vicini di casa e così via.

Trasformando i conflitti nel tuo ambito di azione, farai molto di più per la pace nel mondo rispetto a quando, per esempio, nutri odio per degli sconosciuti che vedi in televisione. Esistono conoscenze fondamentali tratte dagli studi sulla pace che trasformano una missione che sembra impossibile in un percorso pieno di soddisfazioni. Non serve essere un esperto: queste conoscenze sono accessibili a tutti. Se risparmi tempo ed energia evitando di alimentare rabbia, separazione, guerra, conflitti e odio, libererai tempo ed energia per studiare come favorire la pace.
Una goccia alla volta, un essere umano alla volta, la trasformazione diventa possibile.

Gran parte della mia attività professionale ha questo intento: aiutare le persone a creare pace, gioia e serenità, in sé stessi e intorno a loro. Per iniziare subito questo percorso prova a prenderti cura di te stesso favorendo rilassamento e benessere.

Come comunicare diagnosi e prognosi al meglio

Come comunicare diagnosi e prognosi al meglio

Comunicare diagnosi e prognosi in modo professionale e allo stesso tempo empatico non è affatto facile. La diagnosi, ovvero il giudizio clinico che riconosce la malattia è spesso una doccia fredda per i pazienti, anche quando c’è la consapevolezza che qualcosa non va. La prognosi, cioè la previsione sul decorso e sull’esito di una condizione morbosa, può essere ancora più difficile da comprendere e accettare.

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Professionisti sanitari, terapeuti e più in generale qualunque persona che abbia scelto di mettersi al servizio della salute e del benessere degli individui, di solito studiano anni per acquisire le proprie competenze. In questo modo raggiungono un potenziale incredibile per aiutare, sostenere e prendersi cura delle altre persone. Tale opportunità può essere seriamente compromessa da una scarsa capacità di comunicare e da un posizionamento errato nella relazione con gli assistiti.

La mancata preparazione su questi due aspetti diventa ancora più lampante quando si deve comunicare diagnosi e prognosi. Avere delle competenze in termini di relazione e comunicazione è indispensabile per mettere a frutto le proprie competenze nella cura dei pazienti. Ciò permette anche di essere al servizio degli altri con cuore e serietà, nel rispetto di sé e delle proprie energie.

È per questa ragione che ho scelto di dedicare parte della mia attività e del mio tempo, come terapeuta e come medico, all’insegnamento delle tecniche di comunicazione in ambito sanitario e ad aiutare a creare una relazione di cura sana e serena.

In questo articolo voglio spiegare perché comunicare diagnosi e prognosi in modo sbagliato e maldestro porta a conseguenze molto deleterie.

Avere delle competenze in termini di relazione e comunicazione è indispensabile per mettere a frutto le proprie competenze di cura

Le competenze di comunicazione sono parte della cura

Le modalità che si utilizzano per comunicare con il paziente sono estremamente importanti. Una pessima comunicazione è nefasta di per sé, indipendentemente da quello che si comunica.
Come medici e terapeuti è necessario comprendere l’importanza delle parole che usiamo e quanto è fondamentale saper comunicare diagnosi e prognosi in modo efficace. Il curante deve conoscere il potere delle proprie parole e l’impatto che esse possono avere, sia in termini negativi sia positivi, soprattutto su una persona in condizioni di fragilità.

Il punto di vista biologico

Negli articoli pubblicati su questo blog ho raccontato spesso situazioni che possono aggravare la situazione di un malato. Abbiamo visto quanto è importante che il paziente si senta al sicuro, “come un pesce dentro l’acqua”. Ho anche sottolineato in diverse occasioni quanto la comunicazione, verbale e non verbale, abbia un impatto importante sulla fiducia che il paziente può riporre nel curante.

Abbiamo parlato in passato del fatto che l’insicurezza aggrava l’intensità dei sintomi e rischia di risucchiare il paziente in un circolo vizioso che può arrivare ad essere mortale. Non si tratta solo di stati emotivi ma di dati biologici: l’emotività è molto più importante di quello che tanti pensano.

In questo articolo ho scelto di illustrare una delle situazioni che spesso peggiorano i sintomi di chi vive una condizione di malattia e che rischiano di rendere la situazione molto più pesante, qualunque essa sia.

Il vissuto emotivo può far sentire ai pazienti di non avere scampo. Questo vissuto emotivo che stiamo descrivendo, nello specifico, scatena un processo biologico che porta l’organismo ad aumentare fortemente il proprio metabolismo. Si mette in moto una tensione/agitazione viscerale. E se la situazione è intensa e/o duratura rischia di provocare una rapida perdita di peso.

In casi estremi si arriva a uno stato di vera e propria prostrazione. Il paziente è immobile, chiuso in se stesso e totalmente coinvolto in uno stato di ansia viscerale irrefrenabile, che impedisce alla persona di riposare e rigenerarsi.

In questo stato emotivo tutte le sensazioni percepite risultano amplificate. Una piccola infiammazione diventa intensa e molto sintomatica, un dolore che sarebbe stato di 3 punti su 10 per intensità è percepito come un dolore intensissimo da 10 su 10 e così via.

La comunicazione, verbale e non verbale, ha un impatto importante sulla fiducia che il paziente ripone nel curante

Un vissuto che tutti abbiamo già incontrato

Senza arrivare obbligatoriamente ai casi più estremi, è capitato a tutti noi di provare questa sensazione di fortissima ansia, anche solo per pochi secondi o minuti. Facciamo qualche esempio.

Ritroviamo questa forma di agitazione e irritazione, per esempio, in una persona che ha dolori ricorrenti da giorni, senza un sollievo. La sensazione di non avere via di scampo dal dolore rende il dolore stesso davvero più intollerabile.

Una situazione d’insonnia che costringe a passare le ore notturne svegli, notte dopo notte, senza trovare il modo di riposarsi, provoca una tensione sempre maggiore che non favorisce la fine di tale calvario.

Molto probabilmente questo è capitato anche a te: il caldo che proviamo di notte in piena estate, che ci impedisce di dormire, ci porta ad agitarci sempre di più, fino a quando non troviamo una soluzione, anche parziale. Un lenzuolo bagnato, per esempio, può temporaneamente migliorare la situazione. Anche se il caldo non accenna a diminuire… Ci rilassiamo e i sintomi diminuiscono. Non solo per il lenzuolo ma perché in questo modo si vive il sollievo di aver trovato una via di scampo dal disagio.

Malattie considerate in fase terminale

Prendendo in considerazione i casi più estremi, la sensazione di non avere una via di scampo si manifesta molto spesso nelle persone che hanno ricevuto la diagnosi o la prognosi di una malattia “in fase terminale”.

Di fatto, questa fase della malattia porta nel nome stesso un messaggio nefasto, che comunica l’assenza di una via di scampo.

Lo stato emotivo conseguente alla diagnosi o alla prognosi può provocare una situazione che rischia di trascinare la persona in un circolo vizioso. Il paziente dimagrisce velocemente perché sente di non aver via di scampo. A quel punto, insieme ai suoi curanti, interpreta il dimagrimento come un peggioramento della malattia, come se lo erodesse da dentro. Ciò conferma a tutti lo stadio “terminale” della malattia. Ed è così che la persona rafforza il vissuto emotivo legato al fatto di non avere via di scampo.

Lo stato emotivo conseguente alla diagnosi o alla prognosi può provocare una situazione che rischia di trascinare la persona in un circolo vizioso

Comunicare diagnosi e prognosi, cosa non fare

Comunicare una diagnosi nefasta è già di per sé uno shock. Le modalità di comunicazione, però, possono a loro volta rappresentare un trauma che condiziona l’intero andamento della malattia.

Quando la patologia è presentata come incurabile o viene definita, per esempio, “degenerativa”, è facile che il paziente possa percepire il vissuto di non avere via di scampo: sente che sta per morire o che diventerà invalido per tutto il resto della sua vita.

La situazione viene peggiorata da tutti quei curanti che si permettono di comunicare diagnosi e prognosi in modo intempestivo e con parole errate.
Tanti medici, abituati alla malattia altrui e alla terminologia medica, inconsapevoli del potere delle loro stesse parole, sono soliti comunicare diagnosi e prognosi senza nessuna cautela. Ho sentito io stessa pronunciare frasi come “lei ha tre mesi di vita” piuttosto che “lei finirà in sedie a rotelle” oppure “a breve non potrà più respirare senza ausilio”.

Queste parole vengono spesso ricevute da chi le ascolta come sentenze che cadono dall’alto, pronunciate da chi conosce con certezza il futuro. Anche se non è affatto così.

A chi si permette di fare queste prognosi, o a chi crede in queste prognosi, ricordo che i medici sono esseri umani. Non abbiamo a disposizione nessuna sfera di cristallo: il futuro non è certezza fino a quando non accade.

Quanti di costoro si tratterrebbero se sapessero che il loro verdetto può diventare una profezia autoavverante? E questo non sempre perché la malattia sia grave, ma piuttosto a causa del modo che hanno scelto per comunicare diagnosi e prognosi.

Le modalità di comunicazione di una diagnosi possono rappresentare un ulteriore trauma

I consigli per comunicare diagnosi e prognosi in modo empatico

L’antidoto a quanto abbiamo appena descritto è più semplice di quello che si potrebbe pensare. Il curante deve aiutare il paziente a sentire visceralmente di avere una scelta. Un orizzonte aperto alla guarigione o almeno a soluzioni di miglioramento.

Tutto ciò che può aiutare a migliorare la situazione di ansia e insicurezza del paziente funziona come difesa dalla percezione che non ci sia una via di uscita e diminuisce le conseguenze negative della malattia.

Nessuna patologia è incurabile. Si può sempre curare una persona malata. Si può promettere senza mentire di fare del proprio meglio per accompagnare gli assistiti nel loro percorso, identificando strumenti utili a farli stare meglio. Solo la guarigione non può essere data per garantita.

L’intervento sintomatico aiuta in tutte le situazioni, regalando maggiore benessere e del tempo aggiuntivo per fare un lavoro alla radice della malattia e ottenere frutti duraturi. Quando c’è un dolore, un trattamento antidolorifico efficace permetterà al paziente di toccare con mano il fatto che c’è una possibilità di miglioramento, dunque una via d’uscita da quel dolore.

Qualsiasi strategia che permetta di diminuire un sintomo e migliorare la situazione è efficace per far sentire al paziente che c’è una via di uscita dalla malattia o dal malessere che accompagna la malattia.

La possibilità di curarsi come si vuole

Avere scelta significa anche poter scegliere come curarsi, nel rispetto dei propri valori. La volontà di interrompere un protocollo terapeutico, per esempio, dovrebbe essere sostenuta anche dai curanti.

Spesso, le cure proposte dalla medicina convenzionale tracciano un’unica strada. A cui a volte si accompagna una sentenza al limite del ricattoo ti curi secondo questo protocollo messo a punto dalla medicina convenzionale o muori”.

È importante lasciare sempre alla persona una prospettiva di cura aperta. Sentirsi in gabbia stimola il nostro animale interiore a reagire. Dimagrire, biologicamente, permette di “passare attraverso le sbarre” e scappare…

L’ospedale dovrebbe essere vissuto come un luogo di opportunità e non come un carcere dal quale non si può evadere.

Avere scelta significa anche poter scegliere come curarsi, nel rispetto dei propri valori

La collaborazione con i pazienti

Nella mia esperienza le cure si dimostrano come più efficaci, sia per il paziente sia per il curante, quando il medico porta avanti un lavoro di crescita personale e di rispetto del sé. Rimettendosi al proprio posto di essere umano, al servizio della salute di un altro essere umano, le scelte non condivise che un paziente potrebbe fare possono essere vissute con rispetto e non come un’offesa personale.

La relazione può essere di collaborazione, senza bisogno di far pressione per convincere a tutti costi il malato a seguire “l’unica strada efficace”.

Di solito, dopo un lavoro serio di consapevolezza, i medici sentono meno il bisogno di dover salvare il paziente a tutti i costi. Questo sentimento di onnipotenza, dettato dalla buona volontà, è fonte di grande frustrazione e impotenza per tutti, curanti e malati.

Rimettersi al proprio posto, invece, permette di aiutare al meglio le persone, in modo serio e con il cuore ma senza perdere il rispetto per sé e per gli altri, partendo dal modo di comunicare diagnosi e prognosi con empatia e senza dare nulla per scontato.

L’importanza della medicina territoriale

Avendo compreso quanto sia importante che la persona si senta libera, nell’ottica di non percepirsi come un uccello in gabbia, si può capire quanto possa essere indispensabile tutto il lavoro di tutela e sviluppo della medicina territoriale. Anche, o forse soprattutto, per facilitare il ricovero a domicilio.

I pazienti cronici che necessitano di cure prolungate possono davvero migliorare se hanno la possibilità di alternare i periodi di ospedalizzazione alle terapie domiciliari, in un ambiente familiare. Si evita così che questi individui abbiano la sensazione di trovarsi rinchiusi.

Quando invece il ricovero in ospedale è necessario, la possibilità di uscire in giardino, all’aria aperta, in luoghi con un orizzonte visivo ampio, regala esperienze che nutrono il senso di aver una via di scampo e contribuiscono al benessere del nostro animale interiore.

Facilitare le terapie domiciliari può essere di grande aiuto perché permette ai pazienti di non sentirsi in gabbia

La medicina integrata può aprire gli orizzonti

La medicina integrata ha un grande valore in tutti quei casi in cui diagnosi e prognosi possono sembrare particolarmente difficili da affrontare. Ed è preziosa perché abbraccia vari punti di vista, approcci e strumenti di cura: un’opzione che migliora significativamente la condizione del paziente, perché lo aiuta a sentire nel profondo di avere una via, anzi più vie di uscita.

L’obiettivo è quello di cercare e trovare insieme varie possibilità di miglioramento e sperimentarle una alla volta. Se alcune opzioni non dimostrano l’efficacia desiderata, c’è la consapevolezza di avere a disposizione altre vie da esplorare insieme.

Come prevenire le malattie, fin da oggi

Come prevenire le malattie, fin da oggi

Prevenire le malattie è possibile? Ci sono delle azioni che possiamo mettere in pratica e che aiutano concretamente a fare quella che comunemente viene chiamata prevenzione?

La buona notizia è che ci sono delle cose che puoi fare per raggiungere questo obiettivo, che poi coincide con quello di coltivare salute e benessere, di cui spesso parlo in questo blog. Probabilmente, però, queste azioni non sono quelle che pensi e sono piuttosto lontane da quanto il sistema sanitario comunemente chiama “prevenzione”. Ma facciamo un passo alla volta, partendo da qualcosa che tutti conosciamo bene.

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La medicina convenzionale occidentale, così com’è organizzata oggi, è essenzialmente una medicina d’urgenza o comunque che interviene quando compaiono dei sintomi. Il medico non è quel professionista che possiamo consultare con l’obiettivo di mantenerci in buona salute.

In effetti, prendi un appuntamento con il tuo medico di base quando non ti senti bene oppure quando il tuo corpo, in qualche modo, ti sta parlando attraverso la manifestazione di sintomi che non sai interpretare. Talvolta se il sintomo ti sembra chiaro chiami direttamente uno specialista per indagare più a fondo nella patologia che pensi di avere. Tutto questo però non serve a prevenire le malattie.

La medicina occidentale convenzionale è soprattutto una medicina d’urgenza

Manca una cultura della prevenzione

Spesso mi stupisco di sentire utilizzare la parola prevenzione, quando invece quello che la medicina convenzionale occidentale fa non è vera prevenzione. Tutt’al più è diagnosi precoce, come nel caso degli screening per verificare lo stato di alcuni organi o tessuti. Oppure si tratta, piuttosto, di vere e proprie terapie farmacologiche, come le statine per contrastare il colesterolo, che possono provocare diversi effetti collaterali (per fare un esempio).

In occidente, non c’è una vera cultura della prevenzione come accade invece in oriente, grazie alla medicina cinese o ayurvedica. La prevenzione è proprio il focus di queste medicine che ho citato. Al punto che anni fa, quando ho studiato la medicina cinese, ho imparato che i medici cinesi tradizionali si facevano pagare per prevenire la malattia, mentre lavoravano gratuitamente nel momento in cui il loro paziente si ammalava. Esiste anche un detto che conferma questo approccio: Curare la malattia è come iniziare a scavare un pozzo quando si ha sete.

La soluzione nel cambiamento

Penso che l’assenza dell’integrazione di un approccio realmente preventivo sia una delle cause della saturazione del sistema sanitario attuale. Proprio poiché la cura si attiva quando le persone si ammalano, il sistema non riesce più a rispondere alla domanda. Si parla tanto di spese sanitarie troppo alte e di problemi di budget che non consentono di assumere ulteriore personale sanitario, mentre rivalutare dove e come si investe potrebbe rappresentare una svolta sana ed efficace.

Sottolineo intanto che prendere in cura una persona malata per riportarla a un equilibrio salutare è molto più dispendioso, economicamente ed emotivamente (sia per i professionisti sia per i pazienti) che aiutarla a mantenersi in salute.

In questo articolo vorrei presentarti un aspetto di quello che dal mio punto di vista rappresenta la vera prevenzione. Voglio offrirti spunti utili per riprendere in mano il potere sulla tutela della tua salute, partendo dalla conoscenza di te stesso. Così potrai prevenire le malattie. Ma prima, ecco qualche informazione di base sul funzionamento dell’organismo, per comprendere gli strumenti che voglio darti.

Poiché la cura si attiva quando le persone si ammalano, il sistema sanitario non riesce più a rispondere alla domanda

Tre livelli: cerebrale, emotivo e organico

In una situazione del tutto normale, ad ogni istante il cervello riceve ed elabora miliardi di informazioni. Nel caso tu abbia tendenza a sottovalutare l’attività del tuo cervello, ti fermo subito: sappi che mette in gioco 1 miliardo e mezzo di connessioni ogni nanosecondo. Nel momento in cui ricevi un’informazione, miliardi di cellule si attivano e qualcosa si muove in te: occhi, bile, dita, bocca… Di fronte a ogni stimolo sono tre i livelli dell’organismo che vengono messi in gioco: cerebrale, emotivo e organico.

Una zona del cervello si attiva per ricevere ed elaborare l’informazione. Si vive una percezione, in modo cosciente oppure no, e parte immediatamente un ordine neurologico per stimolare l’azione di una parte del corpo specifica: un muscolo, una ghiandola, il tessuto di un organo eccetera. Le informazioni arrivano a volte in modo percepibile dalla coscienza come, ad esempio, il canto di un uccello, il sorriso di una persona, la sensazione della pioggia sul viso, il gusto di un biscotto, e così via. Altre volte sono inconsce, come i pollini nell’aria, un dettaglio nel nostro campo visivo sul quale non stiamo portando l’attenzione, i nutrimenti contenuti nel biscotto, un’informazione vibrazionale eccetera.

Di fronte ad ogni informazione ricevuta, l’organismo vive un percepito biologico e/o emotivo, anch’esso a volte conscio, a volte inconscio. L’organismo, per esempio, percepisce, senza bisogno che il fatto arrivi alla coscienza, se un cibo è tossico o vitale. Percepisce anche se un suono è piacevole o disturbante… In questo caso a volte il suono arriva alla coscienza, e così anche il percepito, altre volte tutto succede nella totale inconsapevolezza.

Le azioni biologiche automatiche

La ricezione dell’informazione crea contemporaneamente delle azioni biologiche automatiche. Appena ricevuta un’informazione, infatti, il cervello lancia degli stimoli nervosi ad alcune parti del corpo. A volte queste azioni e i loro effetti sono visibili: ad esempio passare la mano nei capelli, grattarsi l’orecchio, starnutire.

Altre volte, invece, sono del tutto invisibili. Per esempio, la contrazione dello stomaco, la dilatazione di un’arteria, il rallentamento del battito cardiaco, l’aumento della produzione di ormoni della tiroide e così via. Ad ogni stimolo, per riassumere, corrispondono un percepito e un’azione biologica. Stiamo parlando di miliardi di stimoli al secondo, cioè miliardi di processi e di triadi percezione-vissuto emotivo/biologico-azione.

Cosa accade in una situazione di stress breve e contenuto?

Gli stimoli, nel nostro vissuto quotidiano, sono più o meno intensi e lo stesso vale per le nostre reazioni. In una situazione di stress contenuto, quasi equiparabile a quello fisiologico e necessario per essere svegli e reattivi giorno dopo giorno, il corpo funziona in modalità di routine. Si alternano momenti di stress e di rilassamento. Tutto rimane nell’ambito della normalità.

Di alcuni momenti di stress siamo consci. È il caso, ad esempio, dello stress legato al fatto di guidare nel traffico e vedersi sbucare di fronte un’auto all’improvviso. Non appena gestito l’imprevisto ci rilassiamo. Lo stesso vale per lo stress che vivi quando devi parlare in pubblico e spiegare concetti complessi: se ti è capitato, sai che ti rilassi non appena vedi che chi ti sta di fronte capisce e ti sta seguendo, oppure quando finisce l’intervento. Anche lo stress per un figlio che vive un momento di difficoltà funziona in questo modo. Quando il momento è superato si torna in uno stato di rilassamento. Gli esempi che potremmo fare sono infiniti.

Gli stimoli, nel nostro vissuto quotidiano, possono essere più o meno intensi e lo stesso vale per le nostre reazioni

Un processo bifasico

In questa alternanza di stress e rilassamento riconosciamo un processo bifasico, cioè in due fasi. La prima corrisponde a quella dello stress attivo. In base al tipo di vissuto, durante questa fase l’organismo aumenta o diminuisce la funzione di un organo o di una ghiandola, per esempio. Può anche aumentare o diminuire il numero di cellule di un tessuto specifico. Tutto dipende dalla tipologia di vissuto psico-biologico e dall’origine embriologica del tessuto coinvolto.

Durante la seconda fase, la fase di vagotonia (cioè quando ti rilassi perché non sei più stressato a causa dell’evento che aveva generato tensione), l’organismo compie l’azione opposta rispetto a quella osservata in fase attiva. In pratica: se durante la fase di stress attivo il corpo aveva aumentato la funzione di un organo o di un tessuto, nella successiva fase di rilassamento la funzione tornerà al livello normale, a volte calerà addirittura drasticamente.

Se durante la fase di stress attivo l’organismo aveva aumentato il numero di cellule fino a creare un ispessimento o una massa, in fase di rilassamento il corpo eliminerà queste cellule, diventate oramai inutili. Viceversa, quando durante il momento di stress vengono eliminate alcune cellule, assottigliando un tessuto o creando delle ulcere, in fase di vagotonia il tessuto ricrescerà e le ulcere saranno richiuse.

L’intensità dei sintomi della fase di riparazione

La seconda fase, quella di vagotonia, che possiamo identificare come una fase di riparazione, è una fase calda. Essa cioè è accompagnata da edemi e infiammazione. Paradossalmente, spesso i dolori o l’infiammazione emergono proprio quando ci rilassiamo, dopo un periodo di stress. Ti è mai capitato di ammalarti proprio nei primi giorni delle vacanze, dopo mesi di sovraccarico lavorativo? Oppure hai sofferto di mal di testa nel fine settimana, dopo giorni di tensione?

Spesso, i sintomi infiammatori della domenica sera o del lunedì sono correlati a una situazione vissuta in modo stressante durante il weekend. Viceversa, i sintomi dei giorni di riposo sono correlati a una situazione vissuta in modo stressante durante la settimana lavorativa. Le reazioni infiammatorie ed edematose a seguito di stress brevi (di pochi secondi o minuti) e poco intensi, sono di fatto asintomatiche. Non sentiamo sintomi specifici oppure sono così lievi ed effimeri che passano inosservati. Ma non è sempre così.

Spesso dolori e infiammazione compaiono proprio quando ci rilassiamo

A una ricezione intensa corrisponde una reazione intensa

Di fronte a una situazione in cui lo stress generato è elevato e duraturo (giorni, mesi, anni…), l’organismo adatta comunque il suo funzionamento. Le reazioni organiche però diventano più intense e persistenti. Da qui dipende ciò che percepiamo come sintomi, che a volte coinvolgono vere e proprie modifiche organiche come masse, addensamenti dei tessuti o ulcere.

Tali cambiamenti non solo li sentiamo, ma possiamo anche osservarli grazie agli esami clinici (auscultazione, palpazione e simili) e paraclinici (esami biologici di laboratorio, esami di diagnostica per immagini come radiografie, ecografie, tac eccetera). Che lo stress sia lieve e breve o intenso e duraturo, si ripete sempre il paradigma dei 3 livelli: cerebrale, emotivo e organico.

Se la fase di riparazione in seguito a uno stress lieve e breve è spesso asintomatica, quella in seguito a uno stress intenso e duraturo può essere molto sintomatica. Si, la fase di riparazione è solitamente la fase la più difficile da vivere, poiché si hanno maggiori sintomi come dolori, infiammazione, limitazioni funzionali. Al di fuori dei check-up a cui potresti aver l’abitudine di sottoporti in assenza di sintomi, questo è il momento in cui di solito ti preoccupi e prenoti delle indagini aggiuntive. Magari in questa fase vengono anche diagnosticate delle malattie.

Non sapendo che questi sintomi fanno parte di un processo sensato, pazienti e curanti si possono spaventare. Di conseguenza, capita che i sintomi e le diagnosi portino le persone a vivere nuovi stress intensi e duraturi, che scatenano ulteriori reazioni del corpo. Si può così entrare in un circolo vizioso dovuto alla mancanza di consapevolezza e alla paura della malattia e dei suoi sintomi.

Di fronte a uno stress elevato e duraturo le reazioni organiche diventano più intense e persistenti, sono ciò che chiamiamo sintomi

Prevenire l’intensità e la durata della fase attiva di stress

La fase di riparazione da sola non può esistere. Accade solo come conseguenza alla fase attiva di stress e si manifesta quando la persona finalmente esce dalla situazione stressante. Una volta superato lo stress, ciò che accade come conseguenza non può essere impedito.

Per prevenire le malattie e cioè abbassare l’intensità dei sintomi nella fase di riparazione, serve agire a monte, con l’obiettivo di limitare la durata e l’intensità dello stress vissuto in fase attiva. A questo scopo, un aiuto concreto nel quotidiano ha a che fare con la capacità di saper accogliere le proprie emozioni e lavorare sull’accettazione di sé e di qualunque evento accada. Poi serve agire per favorire tutto quello che permette di rispettare se stessi e vivere una vita in armonia con i propri bisogni e i propri valori.

Sto parlando di una vita in armonia con il proprio Essere profondo. Rispettare i propri ritmi, avere cura dei propri bisogni fisiologici, conoscere se stessi, saper comunicare e creare relazioni armoniose, lasciare scorrere la vita dentro evitando di ostacolare il proprio movimento vitale interiore, come racconto anche qui. Da tutto quanto ho elencato, diventa evidente che quando aiuto le persone a crearsi una vita armoniosa, non sto affatto dimenticando il mio essere medico al servizio della salute.

Il problema della disconnessione

Spesso ci adattiamo alle situazioni e ai bisogni degli altri perché non siamo più connessi a noi stessi, ai nostri bisogni e ai nostri desideri profondi. Quando ti succede questo non sei molto centrato e vivi in balia degli accadimenti e degli altri. È come lasciare il timone della tua vita al caso.

In tali condizioni, non stai realizzando il tuo potenziale e non metti la ricchezza della tua unicità al servizio degli altri. La vita perde parte del suo senso. Diventa un insieme di obblighi che potresti affrontare come un automa e perdi la grande opportunità di vivere nella gioia.

Poiché non ascolti più te stesso, dimentichi anche di soffermarti sullo stress e sulle varie tensioni vissute. Non ti accorgi di essere in fase attiva di stress e di conseguenza non cerchi nemmeno soluzioni, così la situazione stressante si prolunga. Il corpo, invece, è sempre connesso alla realtà. Sente tutto lo stress e il disagio che attraversi, e agisce per adattarsi e sopravvivere.

Quando non si realizza il proprio potenziale la vita perde parte del suo senso

Cosa fare, invece, per prevenire le malattie e vivere meglio?

Spesso è in qualche modo necessario vivere situazioni insopportabili per ricevere la scossa che permette di capire che è il momento di cambiare. Il cambiamento inizia mettendosi al centro della propria vita.

Un cambiamento che prima di tutto è interiore, perché riprenderai ad ascoltarti, ad accogliere ed esprimere le tue emozioni, a rispettare te stesso, a farti rispettare dagli altri e soprattutto a creare situazioni in sintonia con i tuoi valori. In questo modo getterai le basi per l’espressione del tuo potenziale di gioia, salute e serenità. E potrai prevenire le malattie.

Certamente il mio consiglio è quello di non aspettare una situazione estrema. Molto meglio iniziare prima un percorso per recuperare la legittimità di mettersi al centro della propria vita, riprenderne il timone e lasciarsi guidare dalle proprie sensazioni. Saranno allora gioia e leggerezza, piuttosto che pesantezza e insoddisfazione, a guidarti e inviarti i segnali “giusti”, quelli che comunicano se avvicinarti o allontanarti da certe situazioni, persone, scelte lavorative…

La strategia che ti consiglio per prevenire le malattie consiste nel diventare molto sensibile ai segnali del tuo corpo. Ciò significa ascoltare ad esempio la tensione, le contratture, le intolleranze. Non per nutrire l’angoscia e la paura della malattia ma al contrario per agire in modo tempestivo e uscire da situazioni sgradite.

Potrai così limitare l’intensità e la durata della fase di stress. Di conseguenza sarà molto meno duratura e intensa la fase di riparazione, l’intensità e la durata dell’infiammazione e degli edemi. Quindi saranno meno intensi i sintomi fisici ed emotivi nel complesso.

Ti auguro belle scoperte e sempre maggiore gioia e serenità nel sperimentare la vera prevenzione, quella che include la salute, il benessere e l’espressione del proprio potenziale.

Cancro e cure non convenzionali, la libertà di scegliere

Cancro e cure non convenzionali, la libertà di scegliere

Cancro e cure non convenzionali possono essere considerate un binomio sensato? Si può pretendere o concedere la libertà di scelta a chi fa l’esperienza di una diagnosi di cancro? Ci sono persone che non vogliono neppure pensare a questa opportunità. Credono che accostare cancro e cure non convenzionali sia un grave errore. Lo credono al punto da ostacolare con forza i propri cari che cercano altre strade.

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Negli articoli “Perché curare il cancro integrando le terapie complementari” e “Cancro: primi passi dopo la diagnosi” ho raccontato i vantaggi di integrare le cure complementari alle terapie convenzionali.

In questo articolo propongo una riflessione a favore delle persone che chiedono, se non il sostegno, almeno il rispetto delle proprie scelte terapeutiche non convenzionali.

Un atteggiamento di rifiuto

Spesso, i giornalisti che raccontano fatti di cronaca legati alla morte per cancro di persone che stavano percorrendo strade di cura non convenzionali, denunciano l’irresponsabilità di queste persone. Sembrano suggerire che se i malati avessero seguito un percorso convenzionale, oggi sarebbero vivi e sani. Questa, però, è una bugia. Coloro che pensano e scrivono cose del genere esprimono tutta la loro ignoranza sulla complessità della situazione.

Certo, sarebbe bello (o forse no) se fosse tutto bianco o nero e se si potessero avere certezze sull’esito futuro di una scelta. La verità è che nessuno può sapere cosa sarebbe accaduto percorrendo un’altra strada, più convenzionale. E quando qualcuno muore in seguito a un percorso di cure convenzionali, non se ne parla sui giornali.

Con questo articolo vorrei dar il mio contributo per favorire una maggiore consapevolezza, vorrei che chi legge capisca quanto sia complesso l’argomento e, perché no, vorrei promuovere il rispetto per le scelte di ognuno. Convenzionali oppure no.

Il desiderio di salute

Innanzitutto, vorrei fosse chiaro a tutti che nell’agire di ognuno di fronte alla malattia e nelle scelte terapeutiche, c’è il desiderio (per sé o per i propri cari) di ripristinare la piena salute e darsi la possibilità di vivere a lungo, sani e felici.

Ogni azione intrapresa ha questo obiettivo. Partendo da questo scopo, ognuno mette in gioco la propria esperienza, le convinzioni, le emozioni, la cultura e il contesto in cui è vissuto. Si sceglie la strada che si crede migliore per sé o per la persona cara. Non è possibile sapere in anticipo quale sarà il risultato e tutto si gioca a partire dal desiderio di raggiungere salute e benessere.

Perché cercare strade non convenzionali?

Guardando negli occhi un figlio/a, una compagna/o, un genitore che sta male, che ha sempre meno energia, che non riesce a tenere il cibo nello stomaco, perde i capelli e diventa sempre più pallido e debole, non è legittimo che sorga un dubbio? Cosa fa stare male questa persona? La malattia o la terapia? Cosa sarebbe successo dicendo no alla chemioterapia?

Siamo in tanti, professionisti e non, ad aver già vissuto da vicino oppure da lontano un percorso di terapie convenzionali tossiche, che ha avuto un esito nefasto. A volte la persona è morta, a volte è sopravvissuta a costo di sofferenze, effetti collaterali e sequele non indifferenti. Può essere legittimo allora, quando la situazione si ripresenta, voler esplorare altre strade?

Il messaggio di fondo sul quale vorrei riflettere con voi è quello secondo cui chi non segue la Medicina Ufficiale è destinato a morire. E in fondo diventa colpevole della propria sofferenza e della propria eventuale morte, assieme a tutti i familiari che non lo hanno distolto da questa “folle” idea.

Perché cercare strade diverse dovrebbe essere folle? Come può essere sbagliato desiderare di star meglio, di preservare l’energia vitale e, anzi, di aumentarla?

Non esiste un’unica via

Come medico mi rincresce doverlo sottolineare, ma anche decidendo di seguire i protocolli della medicina convenzionale non c’è certezza di guarigione. Questo significa che non esiste una Via Assoluta, efficace sempre e per tutti.

Anche decidendo di seguire i protocolli della medicina convenzionale non c’è certezza di guarigione

Magari ci fosse un percorso senza effetti collaterali e che assicura la guarigione! Allora forse sì, di fronte alla certezza del successo, chi non percorresse quella via sarebbe da considerare folle. La scelta di non curarsi secondo un protocollo che dà il 100% di guarigioni e di benessere sarebbe davvero difficile da comprendere.

Guardare ai fatti

Partendo dalla costatazione che c’è tanto margine di miglioramento riguardo alle cure convenzionali e non, sembrerebbe evidente che per aiutare il paziente serve unire le forze, le conoscenze e i punti di vista.

Non posso che constatare che c’è una mancanza di collaborazione tra i professionisti esperti nei diversi approcci, quando invece le strade della medicina convenzionale e non convenzionale si potrebbero benissimo integrare.

Osservo che tanti operatori, anziché collaborare sfruttando le competenze e le conoscenze di ognuno, si ignorano, anzi: sovente si disprezzano. Spesso senza nemmeno conoscersi! A subire le conseguenze di tutto questo sono i malati e i loro cari.

È un dato oggettivo, per esempio, che la chemioterapia sia una terapia fortemente invalidante. I medici e i pazienti che esplorano strade nuove per cercare di evitare, arginare o compensare i danni delle terapie proposte dalla medicina convenzionale perseguono un intento legittimo.

Alcuni studi hanno mostrato che i medici sono spesso i primi a esitare quando devono sottoporsi a queste terapie se si ritrovano nel ruolo di paziente. Questo perché sanno ciò che comportano. Iniettarsi un veleno altamente tossico nel corpo per uccidere le cellule considerate pericolose non è affatto naturale. Nessuno che conosce la medicina potrebbe mai farlo a cuor leggero.

La medicina non è onnipotente

Contrariamente a quello che tanti vogliono far credere, ricordo che la medicina non è una scienza ma un’arte. Un’arte che necessità umanità, empatia, rispetto, sensibilità, intuizione e umiltà, oltre che conoscenza e tecnica.
Non comprendo quest’insistenza a voler fare passare la medicina per una scienza esatta. Forse c’è un bisogno diffuso, da parte dei media e dei professionisti, di convincere le persone che sia totalmente sicura e infallibile? Farne una scienza non ne eliminerebbe comunque i potenziali margini di fallimento (quante teorie, nei secoli, si sono rivelate sbagliate?).

L’integrazione come via verso salute e benessere

Sempre più persone decidono di integrare le terapie convenzionali con un percorso di terapie non convenzionali. Scelgono di seguire i protocolli terapeutici consigliati dalla medicina convenzionale e, spesso di nascosto dalla squadra di professionisti convenzionali, integrano un percorso di terapie non convenzionali.
Strade che possono comprendere, ad esempio, terapie naturali per arginare gli effetti collaterali della chemioterapia e percorsi per raggiungere la consapevolezza delle ragioni dietro alla malattia, con l’obiettivo di individuare e rimuoverne le cause.
L’intento dei percorsi di consapevolezza mira certo a una guarigione fisica, ma anche emotiva e a volte spirituale.
Anche se qualcuno che critica e dà parere contrario c’è sempre, di solito questa integrazione risulta una via abbastanza pacifica, che i pazienti riescono a percorrere senza troppi ostacoli.

Sempre più persone decidono di integrare le terapie convenzionali con un percorso di terapie non convenzionali

Perché una scelta drastica?

A volte invece, alcune persone rifiutano totalmente la medicina convenzionale. Perché una scelta cosi drastica? Per comprendere queste scelte c’è da prendere atto di un fatto importante. Accettare terapie tossiche che fanno sentir peggio di quanto faccia il tumore è un grande atto di fiducia nei confronti della medicina che si pratica nei nostri ospedali. Questa fiducia, però, oggi è incrinata.

Lo è perché la medicina che viene proposta è una medicina di massa, fatta di protocolli in cui si cura la malattia e non la persona. Se il protocollo prevede 6 dosi di farmici chemioterapici, una ogni 3 settimane, il medico prescrive questo stesso percorso indipendentemente dalla persona che ha di fronte e dalla sua risposta fisica. Il medico stesso è prigioniero dal protocollo e rischia il proprio posto di lavoro se si prende la libertà di adattarlo al paziente.

La medicina che viene proposta è una medicina di massa

Inoltre, la fiducia è incrinata perché vengono sempre più spesso a galla malfunzionamenti gravi del sistema: manipolazioni che portano primari di chirurgia a fare operazioni non necessarie per raggiungere i budget di spesa prefissati; case farmaceutiche che corrompono i ricercatori per modificare i risultati delle sperimentazioni sui farmaci falsificando i dati sull’efficacia o sugli effetti collaterali… Sono tanti gli esempi che chiariscono quanto il benessere del paziente non sia sempre al primo posto in questi ambienti.

Tale crisi di fiducia può spingere il paziente a rifiutare del tutto un certo tipo di cure per cercare strade alternative.

Evitare i protocolli, si può?

Creare la propria via di guarigione indipendentemente dai protocolli è possibile? Ho conosciuto personalmente pazienti che l’hanno fatto e che stanno bene. Vorrei però sottolineare che non c’è una ricetta magica. Questi individui hanno intrapreso un percorso di consapevolezza e di auto determinazione. Hanno cambiato non solo le proprie abitudini ma anche attitudini e convinzioni.

Bisogna essere pronti e convinti per intraprendere un percorso del genere. Sono decine di anni che riceviamo messaggi che fanno del terrorismo sulla malattia e in particolar modo sul cancro. I medici sono i primi ad aver ricevuto un insegnamento che vede la malattia come un nemico sempre pronto a colpire, dal quale ci dobbiamo proteggere e che dobbiamo combattere senza tregua.

Riuscire a liberarsi da queste convinzioni e da questo punto di vista tanto spaventoso non è da tutti. Serve avere delle conoscenze, delle esperienze personali o famigliari che hanno favorito o rinforzato la fiducia nel corpo, nella sua capacità di auto-guarigione e nella Vita che scorre in noi. Nella mia esperienza, serve sostanzialmente essere ben connessi alla propria direzione interiore.

Accompagnati oppure soli

Qualunque sia la strada scelta, un percorso di guarigione è sempre un percorso personale. Nessuno lo può fare al posto nostro. Solo la persona coinvolta direttamente vive sulla propria pelle emozioni e sintomi. È sempre lei o lui che sentirà se quello che sta facendo è la strada giusta oppure no.

C’è però una differenza importante per chi sceglie una strada non convenzionale rispetto a quella convenzionale. Spesso non troverà il sostegno del sistema sanitario e forse nemmeno dei propri cari. Anzi: rischia di incontrare critiche, giudizio, rabbia, frustrazione, ansia, a volte violenza. Scegliere una strada diversa da quella convenzionale aumenta il senso di responsabilità verso se stessi e di solitudine, in un certo senso.

Un percorso di guarigione è sempre un percorso personale

Quando si cerca di convincere l’altro sulle cure da intraprendere

Prima di fare pressione sulle scelte terapeutiche di un’altra persona, è importante sapere che percorrere una strada che ci convince è una condizione che favorisce la nostra guarigione, indipendentemente dalla strada scelta. La fiducia, il senso di sicurezza e la libertà di scelta favoriscono drasticamente i processi di guarigione.

Nessuna persona, che sia un terapeuta convenzionale oppure no, può garantire al paziente la sua guarigione e nemmeno un miglioramento sicuro seguendo le terapie proposte.
Il risultato di un percorso di guarigione appartiene alla persona. È il risultato di un movimento interiore profondo, in parte inconscio, che può al massimo essere sostenuto da chi è esterno al processo.

Se la tentazione di obbligare la persona a fare quello che crediamo giusto è troppo grande, rendendo a volte un inferno la vita in comune, propongo di farsi qualche domanda. Cosa mi spinge a fare pressione? L’amore o la paura? Il rispetto o il disprezzo? La conoscenza o l’ansia? La fiducia o il terrore di avere rimpianti? Mi muovo in relazione a quello che c’è realmente o in relazione a quello che temo?

L’attrazione verso il protocollo

I protocolli di medicina convenzionale possono restituire un senso di sicurezza al paziente, ai suoi cari e al medico curante. In un momento di tempesta, avere una strada già tracciata (e percorsa da tanti altri) per i prossimi 3-6 mesi senza aver bisogno di riflettere, senza sforzarsi per sentire cosa è giusto, senza decisioni da prendere, relativizza l’eventuale senso di smarrimento.

Un percorso di guarigione personalizzato si fa un passo alla volta, osservando gli effetti di ogni passo e di ogni scelta, rispettando i tempi del corpo e pronti a continuare nella stessa direzione o adattare la propria rotta.

Seguire un percorso deciso da una squadra di curanti convenzionali sostenuta dal Sistema Sanitario Nazionale, toglie anche un po’ di senso di responsabilità. Sono altre persone esperte a decidere per me o per la persona cara. Nel togliersi un po’ di senso di responsabilità, ci tuteliamo da un eventuale futuro senso di colpa se le cose non dovessero finire bene.

Capisco, davvero, la difficoltà di accettare l’incertezza. Con i protocolli, la parte razionale che c’è in noi cerca di mettere l’essere umano e la Vita in caselle predefinite, per trovare sempre una soluzione efficace, definitiva e immediata. Purtroppo, o per fortuna, la Vita non è affatto cosi lineare!

Il percorso di cura, un momento di condivisione

Rinunciare a opprimere la persona malata per convincerla a fare quello che consideriamo giusto; accettare di fare un passo indietro per lasciarle spazio e rispettare le sue scelte è un gran dono d’amore incondizionato. È un segno di stima e di sana umiltà.

Al di fuori di ogni dogma, libero da pressioni esterne, ognuno può trovare la propria strada. Qualcuno si sentirà al sicuro e curato bene beneficiando esclusivamente dei protocolli della medicina convenzionale. Qualcun altro avrà la necessità di integrare le medicine complementari, mentre altri ancora decideranno di percorrere esclusivamente un percorso non convenzionale.

Qualunque sia la scelta, potrai sostenere il percorso di chi ami con la tua presenza amorevole, con empatia e rispetto e rendere la situazione delicata un momento di grande condivisione e crescita personale, per tutti.