Come comunicare diagnosi e prognosi al meglio

Come comunicare diagnosi e prognosi al meglio

Comunicare diagnosi e prognosi in modo professionale e allo stesso tempo empatico non è affatto facile. La diagnosi, ovvero il giudizio clinico che riconosce la malattia è spesso una doccia fredda per i pazienti, anche quando c’è la consapevolezza che qualcosa non va. La prognosi, cioè la previsione sul decorso e sull’esito di una condizione morbosa, può essere ancora più difficile da comprendere e accettare.

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Professionisti sanitari, terapeuti e più in generale qualunque persona che abbia scelto di mettersi al servizio della salute e del benessere degli individui, di solito studiano anni per acquisire le proprie competenze. In questo modo raggiungono un potenziale incredibile per aiutare, sostenere e prendersi cura delle altre persone. Tale opportunità può essere seriamente compromessa da una scarsa capacità di comunicare e da un posizionamento errato nella relazione con gli assistiti.

La mancata preparazione su questi due aspetti diventa ancora più lampante quando si deve comunicare diagnosi e prognosi. Avere delle competenze in termini di relazione e comunicazione è indispensabile per mettere a frutto le proprie competenze nella cura dei pazienti. Ciò permette anche di essere al servizio degli altri con cuore e serietà, nel rispetto di sé e delle proprie energie.

È per questa ragione che ho scelto di dedicare parte della mia attività e del mio tempo, come terapeuta e come medico, all’insegnamento delle tecniche di comunicazione in ambito sanitario e ad aiutare a creare una relazione di cura sana e serena.

In questo articolo voglio spiegare perché comunicare diagnosi e prognosi in modo sbagliato e maldestro porta a conseguenze molto deleterie.

Avere delle competenze in termini di relazione e comunicazione è indispensabile per mettere a frutto le proprie competenze di cura

Le competenze di comunicazione sono parte della cura

Le modalità che si utilizzano per comunicare con il paziente sono estremamente importanti. Una pessima comunicazione è nefasta di per sé, indipendentemente da quello che si comunica.
Come medici e terapeuti è necessario comprendere l’importanza delle parole che usiamo e quanto è fondamentale saper comunicare diagnosi e prognosi in modo efficace. Il curante deve conoscere il potere delle proprie parole e l’impatto che esse possono avere, sia in termini negativi sia positivi, soprattutto su una persona in condizioni di fragilità.

Il punto di vista biologico

Negli articoli pubblicati su questo blog ho raccontato spesso situazioni che possono aggravare la situazione di un malato. Abbiamo visto quanto è importante che il paziente si senta al sicuro, “come un pesce dentro l’acqua”. Ho anche sottolineato in diverse occasioni quanto la comunicazione, verbale e non verbale, abbia un impatto importante sulla fiducia che il paziente può riporre nel curante.

Abbiamo parlato in passato del fatto che l’insicurezza aggrava l’intensità dei sintomi e rischia di risucchiare il paziente in un circolo vizioso che può arrivare ad essere mortale. Non si tratta solo di stati emotivi ma di dati biologici: l’emotività è molto più importante di quello che tanti pensano.

In questo articolo ho scelto di illustrare una delle situazioni che spesso peggiorano i sintomi di chi vive una condizione di malattia e che rischiano di rendere la situazione molto più pesante, qualunque essa sia.

Il vissuto emotivo può far sentire ai pazienti di non avere scampo. Questo vissuto emotivo che stiamo descrivendo, nello specifico, scatena un processo biologico che porta l’organismo ad aumentare fortemente il proprio metabolismo. Si mette in moto una tensione/agitazione viscerale. E se la situazione è intensa e/o duratura rischia di provocare una rapida perdita di peso.

In casi estremi si arriva a uno stato di vera e propria prostrazione. Il paziente è immobile, chiuso in se stesso e totalmente coinvolto in uno stato di ansia viscerale irrefrenabile, che impedisce alla persona di riposare e rigenerarsi.

In questo stato emotivo tutte le sensazioni percepite risultano amplificate. Una piccola infiammazione diventa intensa e molto sintomatica, un dolore che sarebbe stato di 3 punti su 10 per intensità è percepito come un dolore intensissimo da 10 su 10 e così via.

La comunicazione, verbale e non verbale, ha un impatto importante sulla fiducia che il paziente ripone nel curante

Un vissuto che tutti abbiamo già incontrato

Senza arrivare obbligatoriamente ai casi più estremi, è capitato a tutti noi di provare questa sensazione di fortissima ansia, anche solo per pochi secondi o minuti. Facciamo qualche esempio.

Ritroviamo questa forma di agitazione e irritazione, per esempio, in una persona che ha dolori ricorrenti da giorni, senza un sollievo. La sensazione di non avere via di scampo dal dolore rende il dolore stesso davvero più intollerabile.

Una situazione d’insonnia che costringe a passare le ore notturne svegli, notte dopo notte, senza trovare il modo di riposarsi, provoca una tensione sempre maggiore che non favorisce la fine di tale calvario.

Molto probabilmente questo è capitato anche a te: il caldo che proviamo di notte in piena estate, che ci impedisce di dormire, ci porta ad agitarci sempre di più, fino a quando non troviamo una soluzione, anche parziale. Un lenzuolo bagnato, per esempio, può temporaneamente migliorare la situazione. Anche se il caldo non accenna a diminuire… Ci rilassiamo e i sintomi diminuiscono. Non solo per il lenzuolo ma perché in questo modo si vive il sollievo di aver trovato una via di scampo dal disagio.

Malattie considerate in fase terminale

Prendendo in considerazione i casi più estremi, la sensazione di non avere una via di scampo si manifesta molto spesso nelle persone che hanno ricevuto la diagnosi o la prognosi di una malattia “in fase terminale”.

Di fatto, questa fase della malattia porta nel nome stesso un messaggio nefasto, che comunica l’assenza di una via di scampo.

Lo stato emotivo conseguente alla diagnosi o alla prognosi può provocare una situazione che rischia di trascinare la persona in un circolo vizioso. Il paziente dimagrisce velocemente perché sente di non aver via di scampo. A quel punto, insieme ai suoi curanti, interpreta il dimagrimento come un peggioramento della malattia, come se lo erodesse da dentro. Ciò conferma a tutti lo stadio “terminale” della malattia. Ed è così che la persona rafforza il vissuto emotivo legato al fatto di non avere via di scampo.

Lo stato emotivo conseguente alla diagnosi o alla prognosi può provocare una situazione che rischia di trascinare la persona in un circolo vizioso

Comunicare diagnosi e prognosi, cosa non fare

Comunicare una diagnosi nefasta è già di per sé uno shock. Le modalità di comunicazione, però, possono a loro volta rappresentare un trauma che condiziona l’intero andamento della malattia.

Quando la patologia è presentata come incurabile o viene definita, per esempio, “degenerativa”, è facile che il paziente possa percepire il vissuto di non avere via di scampo: sente che sta per morire o che diventerà invalido per tutto il resto della sua vita.

La situazione viene peggiorata da tutti quei curanti che si permettono di comunicare diagnosi e prognosi in modo intempestivo e con parole errate.
Tanti medici, abituati alla malattia altrui e alla terminologia medica, inconsapevoli del potere delle loro stesse parole, sono soliti comunicare diagnosi e prognosi senza nessuna cautela. Ho sentito io stessa pronunciare frasi come “lei ha tre mesi di vita” piuttosto che “lei finirà in sedie a rotelle” oppure “a breve non potrà più respirare senza ausilio”.

Queste parole vengono spesso ricevute da chi le ascolta come sentenze che cadono dall’alto, pronunciate da chi conosce con certezza il futuro. Anche se non è affatto così.

A chi si permette di fare queste prognosi, o a chi crede in queste prognosi, ricordo che i medici sono esseri umani. Non abbiamo a disposizione nessuna sfera di cristallo: il futuro non è certezza fino a quando non accade.

Quanti di costoro si tratterrebbero se sapessero che il loro verdetto può diventare una profezia autoavverante? E questo non sempre perché la malattia sia grave, ma piuttosto a causa del modo che hanno scelto per comunicare diagnosi e prognosi.

Le modalità di comunicazione di una diagnosi possono rappresentare un ulteriore trauma

I consigli per comunicare diagnosi e prognosi in modo empatico

L’antidoto a quanto abbiamo appena descritto è più semplice di quello che si potrebbe pensare. Il curante deve aiutare il paziente a sentire visceralmente di avere una scelta. Un orizzonte aperto alla guarigione o almeno a soluzioni di miglioramento.

Tutto ciò che può aiutare a migliorare la situazione di ansia e insicurezza del paziente funziona come difesa dalla percezione che non ci sia una via di uscita e diminuisce le conseguenze negative della malattia.

Nessuna patologia è incurabile. Si può sempre curare una persona malata. Si può promettere senza mentire di fare del proprio meglio per accompagnare gli assistiti nel loro percorso, identificando strumenti utili a farli stare meglio. Solo la guarigione non può essere data per garantita.

L’intervento sintomatico aiuta in tutte le situazioni, regalando maggiore benessere e del tempo aggiuntivo per fare un lavoro alla radice della malattia e ottenere frutti duraturi. Quando c’è un dolore, un trattamento antidolorifico efficace permetterà al paziente di toccare con mano il fatto che c’è una possibilità di miglioramento, dunque una via d’uscita da quel dolore.

Qualsiasi strategia che permetta di diminuire un sintomo e migliorare la situazione è efficace per far sentire al paziente che c’è una via di uscita dalla malattia o dal malessere che accompagna la malattia.

La possibilità di curarsi come si vuole

Avere scelta significa anche poter scegliere come curarsi, nel rispetto dei propri valori. La volontà di interrompere un protocollo terapeutico, per esempio, dovrebbe essere sostenuta anche dai curanti.

Spesso, le cure proposte dalla medicina convenzionale tracciano un’unica strada. A cui a volte si accompagna una sentenza al limite del ricattoo ti curi secondo questo protocollo messo a punto dalla medicina convenzionale o muori”.

È importante lasciare sempre alla persona una prospettiva di cura aperta. Sentirsi in gabbia stimola il nostro animale interiore a reagire. Dimagrire, biologicamente, permette di “passare attraverso le sbarre” e scappare…

L’ospedale dovrebbe essere vissuto come un luogo di opportunità e non come un carcere dal quale non si può evadere.

Avere scelta significa anche poter scegliere come curarsi, nel rispetto dei propri valori

La collaborazione con i pazienti

Nella mia esperienza le cure si dimostrano come più efficaci, sia per il paziente sia per il curante, quando il medico porta avanti un lavoro di crescita personale e di rispetto del sé. Rimettendosi al proprio posto di essere umano, al servizio della salute di un altro essere umano, le scelte non condivise che un paziente potrebbe fare possono essere vissute con rispetto e non come un’offesa personale.

La relazione può essere di collaborazione, senza bisogno di far pressione per convincere a tutti costi il malato a seguire “l’unica strada efficace”.

Di solito, dopo un lavoro serio di consapevolezza, i medici sentono meno il bisogno di dover salvare il paziente a tutti i costi. Questo sentimento di onnipotenza, dettato dalla buona volontà, è fonte di grande frustrazione e impotenza per tutti, curanti e malati.

Rimettersi al proprio posto, invece, permette di aiutare al meglio le persone, in modo serio e con il cuore ma senza perdere il rispetto per sé e per gli altri, partendo dal modo di comunicare diagnosi e prognosi con empatia e senza dare nulla per scontato.

L’importanza della medicina territoriale

Avendo compreso quanto sia importante che la persona si senta libera, nell’ottica di non percepirsi come un uccello in gabbia, si può capire quanto possa essere indispensabile tutto il lavoro di tutela e sviluppo della medicina territoriale. Anche, o forse soprattutto, per facilitare il ricovero a domicilio.

I pazienti cronici che necessitano di cure prolungate possono davvero migliorare se hanno la possibilità di alternare i periodi di ospedalizzazione alle terapie domiciliari, in un ambiente familiare. Si evita così che questi individui abbiano la sensazione di trovarsi rinchiusi.

Quando invece il ricovero in ospedale è necessario, la possibilità di uscire in giardino, all’aria aperta, in luoghi con un orizzonte visivo ampio, regala esperienze che nutrono il senso di aver una via di scampo e contribuiscono al benessere del nostro animale interiore.

Facilitare le terapie domiciliari può essere di grande aiuto perché permette ai pazienti di non sentirsi in gabbia

La medicina integrata può aprire gli orizzonti

La medicina integrata ha un grande valore in tutti quei casi in cui diagnosi e prognosi possono sembrare particolarmente difficili da affrontare. Ed è preziosa perché abbraccia vari punti di vista, approcci e strumenti di cura: un’opzione che migliora significativamente la condizione del paziente, perché lo aiuta a sentire nel profondo di avere una via, anzi più vie di uscita.

L’obiettivo è quello di cercare e trovare insieme varie possibilità di miglioramento e sperimentarle una alla volta. Se alcune opzioni non dimostrano l’efficacia desiderata, c’è la consapevolezza di avere a disposizione altre vie da esplorare insieme.